«Come l’anno scorso ho cercato di servire il processo sinodale come esperto facilitatore insieme ad altri 40 facilitatori che accompagnavano i lavori ai tavoli. Si è notato da più parti un’atmosfera migliorata rispetto alla prima Sessione. Quest’anno ci si è ritrovati in modo ancora più fraterno e più cordiale. Già ci conoscevamo, dentro una trama di buona stima vicendevole e di affetti fraterni, per cui il clima è stato davvero buono, disteso. Anche qualche tensione, che si era palesata l’anno scorso, è stata molto più ridotta nella Sessione appena conclusa. Infatti, negli interventi non ci sono stati momenti di alta densità polemica». A raccontare come abbia vissuto le ultime tre settimane partecipando al Sinodo, è don Mario Antonelli, rettore del Pontificio Seminario Lombardo, sacerdote ambrosiano e già vicario episcopale in Diocesi. Se l’anno scorso aveva definito l’assise ««“un corpo a corpo”, non così usuale negli ambienti ecclesiali, ritrovandosi gomito a gomito ai tavoli, ma anche in modo informale, condividendo pezzi di storia delle proprie Chiese», quest’anno il giudizio è ancor più convinto sulla «bellezza del camminare insieme nella conversione e nella conversazione».
Un Padre sinodale ha parlato del passaggio da un «sinodo di carta» a un «sinodo di carne», sottolineando il coinvolgimento dei Padri e delle Madri sinodali in cammini di incontro spirituale e umano. Secondo lei il metodo dell’ascolto e del procedere insieme si è ancora più concretizzato?
Un conto è scrivere delle cose, un conto, invece, è fare la differenza ascoltando un fratello o una sorella, parlando, offrendo la parola all’altro e al tempo stesso ascoltandosi vicendevolmente, convinti che lo Spirito di Dio è su ciascuno e ispira il cuore e la parola di ognuno di noi. Devo dire che davvero, anche leggendo il Documento finale, si può notare come tutti i capitoli riportino o nel sottotitolo, la parola «conversione» che – come ben noto in America Latina, ma ormai anche da noi – è una prassi sinodale: non c’è conversione senza conversazione. La conversione che matura dentro il processo sinodale e che viene raccomandata, consegnata come grazia, come impegno per tutte le Diocesi del mondo, è la conversione a una umanità veramente pasquale, che si dà sempre nella conversazione.
Ci sono stati aspetti che hanno testimoniato timidezza nell’essere affrontati oppure in cui si sono dimostrate differenze per ora insanabili?
Qualche tema è stato particolarmente propizio per l’emergere delle differenze, che per sé sono un dono, soprattutto quando sono differenze radicate in tradizioni di Vangelo, di santità: tradizioni di Chiese del Signore e tradizioni di docilità allo Spirito. Al tempo stesso, direi che sono emerse delle differenze di sensibilità, purtroppo legate invece a ciò che papa Francesco nel suo discorso finale ha chiamato «rigidità». La rigidità, per esempio, riguardo al grande tema della differenza uomo-donna, con più di una timidezza registrata in rapporto all’opportunità del riconoscimento della presenza delle donne della Chiesa e di una valorizzazione della loro competenza, della loro passione dentro la relazione appunto con tutti e con tutte. Rimango dell’idea che, purtroppo, per secoli, abbiamo quasi sospeso il dato fondamentale della relazione maschio-femmina nella Chiesa in particolare negli ambienti con funzione di governo e di decisione. Mentre sentire finalmente, in modo consistente, la voce delle donne cambia la musica. Certamente qualche timidezza – se vogliamo usare questo termine -, c’è stata anche in rapporto ai ministeri in genere, per qualche limite rispetto ai cammini formativi nella conversione verso una Chiesa sempre più missionaria e per questo sinodale.