Sabato 2 novembre al Famedio si aggiungerà una nuova figura proveniente della Diocesi di Milano. Tra le tante personalità illustri che hanno dedicato la propria vita per la città, comparirà infatti il nome di don Luigi Melesi, storico cappellano del carcere di San Vittore.
Il sacerdote dedicò dal 1978 al 2008 gran parte delle sue energie al servizio dei detenuti. La sua trentennale esperienza di cappellano è contenuta anche nel suo libro, Prete da galera (edizione San Paolo). Chi in quegli anni lo ha conosciuto molto da vicino è Luigi Pagano, l’ex direttore di San Vittore. Ne dipinge un ritratto nostalgico: «È stata una persona capace di dialogare con tutti. Un prete nel vero senso della parola. Don Luigi si muoveva da cappellano, ma sapeva prevenire quelle dinamiche che, amplificate dal nostro contesto, potevano ogni volta trasformarsi in tragedie. A San vittore ha saputo lavorare con tutti e affrontare i problemi».
Pagano è convinto che sia impossibile replicare una figura come Melesi. Ha vissuto in un momento storico che ne aveva esaltato le sue caratteristiche, ma ha saputo affrontare dinamiche e vicende che hanno scosso Milano e l’Italia, come il periodo della lotta armata e l’inchiesta Mani pulite sul fenomeno delle tangenti.
Denunciare per scuotere le coscienze
L’eredità più importante che Pagano ricorda è l’approccio con i detenuti. In questi contesti, sapeva destreggiarsi come una figura superpartes disponibile con ognuno, come tutti lo erano con lui, che fossero i detenuti o il personale del carcere. Un rapporto di stima che sapeva diventare anche di amicizia. «Io e don Luigi – sottolinea Pagano – ci trovavamo spesso d’accordo. Capitava spesso che lui mi offrisse i suoi saperi e pareri, e che io traducessi in termini giuridici le sue idee».
L’ex direttore afferma che anche oggi sarebbero stati perfettamente d’accordo, soprattutto nell’affrontare di petto le questioni più spinose delle attuali carceri italiane. «Se oggi potesse parlare, la sua prima parola sarebbe “vergogna”. Non si è mai fatto problemi a censurare il governo o noi stessi. Le sue omelie, per quanto dure, spesso riflettevano i miei pensieri. E questo perché non era un integralista. Sapeva essere duro, ma più per scuotere le coscienze che per mortificare. Durante il Giubileo del 2000, ad esempio, sia lui sia il cardinal Martini avevano tenuto un discorso che aveva colpito il cuore e la mente di tutti i magistrati, avevano saputo dar vita a storie che invece loro vedevano solo dalla parte del tribunale. Il loro discorso aveva suscitato una commozione enorme anche all’interno dell’istituto».
Gli anni della lotta armata
Anche per chi non conosce particolarmente bene il periodo degli anni di piombo, la figura di don Melesi è ricordata per alcuni episodi collegati alle azioni delle Brigate rosse a Milano. Pagano racconta che quando il cardinal Martini, giunto a Milano, era sceso dall’auto e aveva continuato a piedi vicino a San Vittore, dicendo che fosse il cuore di Milano. «Credo che don Luigi avesse colto al volo queste parole. Da allora aveva intrecciato un rapporto con Cardinale, che è culminato nella visita al carcere, dove entrava in tutte le celle per conoscere i detenuti. Durante la visita, don Luigi lo scortava anche alla sezione speciale, dove erano reclusi i brigatisti. Aperta la cella, trovavano già nel cortile i detenuti. Sembrava tutto improvvisato, ma credo fortemente che ci fosse dietro una regia. Infatti don Luigi e il Cardinale, dopo una preghiera collettiva, erano stati avvicinati da uno dei detenuti, che “casualmente” aveva in tasca una copia della Colonna infame e l’ha data a loro».
Il futuro delle carceri
La speranza di Pagano è che il momento dell’iscrizione al Famedio di Melesi possa riaprire un sano dibattito sulle carceri. «Il paradosso è avere un istituto in centro come San Vittore, con il suo sovraffollamento e i suoi drammi, e non parlarne mai, perché dall’esterno sembra tutto tranquillo. Quando sono arrivato io nel 1989, si parlava di San Vittore come un “quartiere” di Milano a cui bisogna prestare massima attenzione e lavorarvi tutti i giorni, affinché sia restituita alla sua popolazione un po’ di dignità. Oggi sono aumentati i poveri, i malati e gli psicodipendenti, e l’amministrazione penitenziaria può fare poco se mancano la città, la società civile e gli enti appositi che devono lavorare insieme a noi».
Secondo Pagano, l’affollamento deriva proprio dalla mancanza di politiche sociali e di lavoro della società per prevenire e recuperare le persone. «Nell’immediato sono possibili solo misure come l’indulto e l’amnistia. Non sono un ammiratore di questi strumenti, ma sono l’unico modo per ridurre il sovraffollamento. Si dovrebbe poi riprendere il percorso sociale, e non parlo delle misure alternative, che sono già ampiamente utilizzate. Oggi, per fare un esempio, ci sono quasi 200 mila persone che scontano misure di questo tipo a fronte di 60 mila in carcere. Il problema, ripeto, è lo stigma da criminali, che porta queste persone a essere considerati cittadini mancati. Come dice invece l’articolo 3 della Costituzione, dovremmo rimuovere gli ostacoli che impediscono questa costruttiva partecipazione sociale. Purtroppo, questo non mi sembra il tempo adatto, perché la politica in generale mi sembra che stia prendendo altre strade».