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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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In Duomo

Santi, testimoni credibili del cammino verso la felicità

Nel Pontificale per la festa di Ognissanti l’Arcivescovo ha indicato la via verso la gioia: la riconoscenza di chi riceve una grazia, la condivisione di questo dono in una comunità, la missione che passa anche attraverso le tribolazioni

di Annamaria BRACCINI

1 Novembre 2024
L'Arcivescovo all'inizio della celebrazione (foto Agenzia Fotogramma)

«Proprio qui, proprio in questo Duomo è bello celebrare questa festa. Circondati da migliaia di statue, per noi è più facile avvertire come i Santi siano nostri amici. Sentiamo la bellezza di essere insieme: il cielo e la terra, la storia e la gloria e cantiamo al Signore la nostra gioia». Inizia con queste parole di saluto e benvenuto, rivolte dall’Arcivescovo ai fedeli riuniti in Duomo, il Pontificale nella Solennità di Tutti i Santi, da lui presieduto e concelebrato da alcuni Canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale. E, davvero, alzando lo sguardo alle migliaia di immagini che arricchiscono le guglie e le navate del Duomo – 3400 solo le statue – pare di poter toccare la santità che attraversa i secoli e che tanto ha segnato anche la storia della Chiesa ambrosiana, indicando cammini di fede, di sacrificio fino al martirio, ma anche di gioia, come suggerisce l’omelia. Riflessione che si apre con la madre di tutte le domande della nostra vita di oggi, un «enigma», per usare la definizione dell’Arcivescovo: «Perché la gente preferisce essere triste, invece che lieta, disperata, invece che fiduciosa?».

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L’enigma dell’infelicità

E perché «gli uomini, le donne, i giovani gli anziani preferiscono essere rassegnati invece che audaci e sognatori? Perché le persone preferiscono chiudersi in una solitudine desolata, invece che partecipare alla festa e cantare e danzare? Perché sulla bocca degli uomini è più abituale il lamento, invece che il cantico dell’esultanza?». Forse perché gli uomini «preferiscono un’infelicità costruita con le proprie mani, piuttosto che ricevere il dono della gioia; preferiscono illudersi di essere padroni di se stessi e della propria vita, a costo di essere soli, piuttosto che accogliere l’invito alla comunione in cui riconoscersi figli grati». Insomma, perché – il riferimento è alla prima Lettura, tratta dal capitolo 7 dell’Apocalisse – «nella presunzione di essere liberi, autosufficienti, padroni del proprio destino preferiscono il “marchio della bestia” al “sigillo del Dio vivente”».

Un momento della celebrazione (foto Agenzia Fotogramma)

Da qui un ulteriore interrogativo posto dall’Arcivescovo. «In questa festa di tutti coloro che sono felici per l’eternità, quale sarà la via verso la felicità?». La via delle Beatitudini, appena risuonate in Duomo con la lettura del Vangelo di Matteo 5.

La via delle Beatitudini 

«Sono proclamati beati i poveri, quelli che non possono comprare la felicità, perché la possono ricevere; perciò sono beati quelli che piangono, perché possono solo confidare nel consolatore; perciò sono beati gli assetati e gli affamati di giustizia, perché hanno un terribile bisogno di giustizia e non possono procurarsela se non con una ispirazione e una fortezza che viene dall’alto. L’esperienza dell’essere amati, dell’essere chiamati, del ricevere gratuitamente il perdono e la salvezza è l’evento e la strada della felicità». Quella per cui basta la «grazia che salva, il sigillo del Dio vivente che non è un privilegio solitario e non scrive una storia individuale, ma introduce nella moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua». Anche se «coloro che si riconoscono per il sigillo del Dio vivente non ricevono l’applauso del mondo e quelli che decidono di vivere secondo il comandamento di Gesù non hanno la garanzia del successo. Per coloro che fanno il bene, infatti, il mondo prova antipatia».

L’Arcivescovo durante l’omelia (foto Agenzia Fotogramma)

Forse appunto in quanto «la pratica del servizio è insostenibile per chi pretende di essere servito. eppure solo la dedizione a servire è il terreno propizio in cui il seme della gioia produce frutto. La pratica del perdono è impensabile per chi vuole farsi valere con la violenza della vendetta e vuole difendersi con la rabbia e l’aggressività, eppure solo lo stile della mitezza e l’operare per la riconciliazione e la pace sono le opere che consentono di sperimentare la gioia di Dio».

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Riconoscenza, fraternità, missione

Per questo – conclude l’Arcivescovo – «coloro che preferiscono essere lieti e fiduciosi, invece che tristi e disperati, ricevono la testimonianza della via praticabile verso la gioia proprio in questo giorno di festa. Una strada fatta di tre parole: «Ricevere la grazia, perciò la riconoscenza, condividere il cantico dell’esultanza, perciò la fraternità nella Chiesa, passare attraverso la grande tribolazione, perciò la missione nel mondo».

E alla fine della Messa, c’è ancora tempo per un’ultima raccomandazione da parte di monsignor Delpini, che ricorda i Santi e la commemorazione di tutti i fratelli e le sorelle defunti «perché ci aiutino ad allargare il nostro orizzonte, per avere un animo che non si ferma al presente alla pressione della vita quotidiana, ma si dilati ad accogliere il Regno di Dio che viene».