«Noi sogniamo un mondo in cui i magistrati non siano minacciati o esposti alla vendetta. Un mondo in cui chi delinque possa redimersi, nel quale le vittime possano trovare giustizia ed essere risarcite. Il Vangelo che abbiamo appena letto ci dice esattamente questo». Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, è intervenuto oggi al Tribunale di Busto Arsizio (Varese) alla cerimonia di inaugurazione di un’icona dedicata al giudice e beato Rosario Livatino (1952-1990), vittima della mafia, promossa dal cappellano della locale Casa circondariale, don David Riboldi. L’icona, realizzata dalle monache del Monastero San Benedetto di via Bellotti a Milano, rimarrà esposta nei locali del Tribunale.
La lettura a cui ha fatto riferimento Delpini, inserita in un momento di preghiera, è tratta dal Vangelo di Giovanni: è la pagina nella quale scribi e farisei vogliono condannare una donna sorpresa in adulterio. «Chi di voi è senza peccato…», esclama Gesù. «La donna è redenta e libera – ha commentato monsignor Delpini -, egli evita un atteggiamento vendicativo. Ma questo rischia di rimanere un sogno. Di fronte a questo mondo imperfetto ci vuole eroismo. Noi non possiamo chiedere a tutti di essere eroi, ma possiamo sperare in donne e uomini che credono nell’umanità, disponibili ad aggiustare questo mondo imperfetto”.
Davanti alle autorità del Tribunale, alle Forze dell’ordine, ai Sindaci di Busto Arsizio e di Legnano (città che ha da poco dedicato un edificio pubblico proprio al magistrato), Delpini ha aggiunto: «Lo stesso Livatino pregava per le persone che erano soggette al suo giudizio e che magari avrebbe condannato. Non poteva sottrarsi al suo ruolo, ma non disperava mai dell’umanità, credeva nell’umanità perché in ogni persona che doveva giudicare vedeva l’immagine di Dio che può risvegliarsi. Questo è un modo per cominciare ad aggiustare il mondo».
Il cugino di Livatino: «Rosario, martire dello Stato e della Chiesa»
«Rosario non ha mai usato il termine “antimafia”, diceva piuttosto di essere pro-giustizia». Salvatore Insenga, cugino di Rosario Livatino, ha portato la sua testimonianza durante la cerimonia. «Non mi è mai piaciuta l’espressione “giudice ragazzino” – ha aggiunto -, perché quando Rosario è stato ucciso aveva 38 anni. Era un uomo, cosciente della realtà che stava affrontando. Uno dei mandanti del suo omicidio abitava nel suo stesso edificio. Ma Rosario ha fatto il suo dovere. Io penso che Rosario si debba considerare martire due volte: martire dello Stato, come Falcone e Borsellino e tante altre vittime della criminalità organizzata; ma anche martire della Chiesa. Della Chiesa universale, perché possa essere d’esempio in tutti quei luoghi del mondo dove la giustizia fatica a imporsi. Capace di portare speranza, perché la giustizia possa affermarsi ovunque».