Vent’anni di Oasis, costruiti sulle basi del dialogo. Nell’anno del suo anniversario la Fondazione costituita a Venezia nel 2004ha ricordato le caratteristiche su cui si fonda la sua anima, con una conferenza sul tema «Guerra e migrazioni. Ripensare i rapporti tra Occidente e mondo musulmano», svoltasi oggi al Museo diocesano di Milano.
Fin dal principio Oasis si è impegnata nel favorire lo scambio teologico e culturale tra le religioni. Il nome stesso, Oasis, fu adottato per ragioni specifiche: l’oasi è l’immagine utilizzata da San Giovanni Paolo II nel suo storico discorso alla Moschea omayyade di Damasco. In quell’occasione il Papa disse che «sia i musulmani sia i cristiani hanno cari i loro luoghi di preghiera, come oasi in cui incontrano il Dio Misericordioso lungo il cammino per la vita eterna, e i loro fratelli e le loro sorelle nel vincolo della religione».
Meticciato di civiltà e culture
Ad aprire il convegno è stato un messaggio inviato dal cardinale Angelo Scola, Arcivescovo emerito di Milano e fondatore di Oasis: «Oggi molte delle antiche comunità cristiane mediorientali, penso alla Siria o all’Iraq, sono ridotte significativamente, mentre un Paese come il Libano, dove i cristiani hanno svolto un ruolo culturale e politico di primo piano, attraversa una crisi forse irreversibile. Ha ancora senso mettere l’accento su questa dimensione?».
Secondo Scola, esistono ragioni per perseverare in questa direzione: la testimonianza cristiana, essenziale per ogni dialogo e che, nelle nuove comunità presenti nei Paesi del Golfo, sta trasformando silenziosamente le società; un altro concetto caro al Cardinale è il «meticciato di civiltà e culture», che descrive il processo di mescolanza culturale tra popoli, anche di fedi diverse, come un’opportunità di arricchimento reciproco.
Un cambiamento d’epoca
Sulla portata degli eventi susseguitisi in questi anni ha dedicato parte del suo intervento monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Già nel 2004, quando Giuliodori era direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della Cei, il cardinale Scola gli confidavò di portare avanti questo progetto. «Il decennio aveva un’impronta precisa: comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Esprimeva il desiderio della Chiesa italiana nello sviluppare un orizzonte di dialogo. I cambiamenti sono in continua e profonda trasformazione, e lo stesso Pontefice ha parlato di un cambiamento d’epoca».
Questa visione coglieva fin dall’inizio le sfide enormi del pontificato di Francesco. Oasis ha costituito nel tempo un luogo di dialogo e confronto, anticipando orizzonti. Questi perimetri hanno trovato forma nel documento di Abu Dhabi del 4 febbraio 2019, in una data che desidera ricordare lo storico incontro tra San Francesco e il sultano al-Malik al-Kamil, durante le crociate nel 1219. «Allo spauracchio dello scontro di civiltà – prosegue Giuliodori -, Oasis e il magistero di Francesco cercano di generare rispetto, relazioni e quell’affetto virtuoso che nasce quando le persone si incontrano. Il Papa si è rivolto ai giovani a Lisbona, con quel todos, todos, todos, con cui tutti possono avere interlocuzioni nella Chiesa. Perché sono i più liberi e capaci di sperimentare strade nuove».
I saluti dell’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, sono stati portati da monsignor Luca Bressan, Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione sociale: «L’Arcivescovo ci tiene a ringraziare il lavoro di Oasis, che ci ha permesso di costruire gli strumenti culturali necessari per affrontare tali questioni. Quando ho letto il titolo del convegno, sono rimasto colpito dal titolo. Il mondo musulmano è vasto, e la relazione la possiamo costruire indagando su cosa sia. Un universo diversificato. In un mondo dove l’Occidente sta perdendo il legame con la religione, ci dà il compito di lavorare sulle rappresentazioni. Che significa essere cristiani, per esempio in un mondo che non lo vuole più essere, soprattutto nel nord Europa».
Il fallimento della «esportazione della democrazia»
Una testimonianza particolare è giunta da monsignor Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia meridionale (e già Vescovo ausiliare ambrosiano), che ha richiamato l’intuizione originale della Fondazione, in un periodo storico influenzato dagli effetti dell’11 settembre.
Per Martinelli, Oasis ha saputo tenersi alla larga dalle sirene dell’occidentalismo, e dal rischio di passare a una lotta senza quartiere del mondo musulmano: «Oasis ha invece aperto spazi di dialogo. Quando le primavere arabe hanno portato novità, si sono scontrate con i nodi intrecciati della religione e della politica, che hanno provocato anche guerre civili. Come per esempio nel martoriato e dimenticato Yemen. L’ascesa dell’Isis e la devastazione della Siria e dell’Iraq, a cui è seguita la ritirata americana a Kabul, hanno reso evidente il fallimento dell’esportazione della democrazia. L’Occidente ha perso fiducia dell’universalismo dei diritti, sono cresciute realtà come Cina e India, e il meticciato appare inesorabile a livello mondiale. Senza che, tuttavia, siano terminate le guerre. Il numero di conflitti è in continua crescita, e lo scontro sembra la condizione normale delle relazioni internazionali. L’obiettivo sembra l’annientamento dell’avversario, o il raggiungimento di un precario status quo, come si vede nello scontro tra Hamas e Israele. Un’incapacità radicale a comunicare, dove non si vuole convertire l’altro, ma cancellarlo».
Martinelli si è detto convinto che l’esperienza pratica della pluralità sia già all’opera nel Golfo, e aiuti a leggere il fenomeno delle mediazioni: «Non sfugge a nessuno che questo programma debba fare i conti con guerre, con la questione ecologica e antropologica, posta dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, la cui portata ci sfugge ampiamente. Oggi siamo sulla soglia di questa rivoluzione, di cui appena ci rendiamo conto. Non sappiamo come andrà a finire, ma sappiamo che serve una qualità, la sapienza. Per questo abbiamo deciso di dedicare il prossimo evento di dicembre ad Abu Dhabi alla saggezza».
La crisi umanitaria nel West Bank
Una testimonianza dalla Cisgiordania è giunta da Ignazio De Francesco, Monaco della piccola famiglia dell’Annunziata, che ha descritto come il conflitto tra Hamas e Israele abbia provocato una crisi umanitaria, politica, di società e cittadinanza: «La sera del 7 ottobre eravamo in chiesa, durante l’ultima preghiera della sera. Siamo stati interrotti dai razzi di Hamas diretti a Tel Aviv. Nella notte siamo rimasti nello smarrimento di chi interroga il buio. L’angoscia è proseguita nei mesi successivi. Più di 40 mila morti, medici che amputano gambe e braccia ogni giorno, senza dimenticare l’ondata di assistenza psicologica. La nostra è una presenza di preghiera, e di esorcismo dal vortice di omicidio. Nel West Bank, l’equivalente delle province di Milano, Como e Brescia, la morte è arrivata alla porta di casa. Siamo in ghetti che sembrano prigioni a cielo aperto. A un certo punto, si ha la sensazione che non tutto sia afferrato dalla ragione. Noi cerchiamo di essere vicini alla gente, e di mantenere un rapporto umano, anche con chi è dall’altra parte del muro. Oggi i bambini vedono gli israeliani solo in divisa militare, e il mio auspicio è che un giorno li conoscano in abiti diversi».
Un odio ormai impiantato tra i popoli
Un nuovo appello, ancora più forte, è giunto da monsignor Jules Boutros, Vescovo della Curia patriarcale di Antiochia dei Siri, che ha offerto un’immagine di quanto accade nella Chiesa del Medio Oriente, dove ogni giorno i giovani abbandonano il Paese: «Negli ultimi 10 anni abbiamo perso più del 60% della nostra comunità a causa della guerra. Se chiedete a un giovane, nessuno vuole restare, pur amando la propria terra. Tanti genitori sono costretti a mandare via i propri figli, per non perderli nel conflitto e nella leva militare, che in Siria dura fino a dieci anni. Il Libano negli ultimi tre giorni è entrato in piena guerra. Abbiamo centinaia di attacchi israeliani in zone cristiane e sciite. Ci sono più di 1.200 morti civili al giorno, e più di tremila feriti. La nostra Chiesa si trova ad assistere, e vuole portare la sua missione di educazione: si può dire che è facile dare a un povero soldi, ma costruire e lavorare per la giustizia è complicato, e a volte siamo timidi nell’affrontare la politica internazionale. In Libano abbiamo organizzato un’Accademia per la pace, e non abbiamo cancellato la prima lezione quando tre giorni fa è cominciato il conflitto. L’abbiamo realizzata perché collaborare con i politici è oggi impossibile, quindi abbiamo il dovere di formarli fin dal principio. In tanti hanno perso la dignità della vita. Tanti non possono dire di essere fratelli di palestinesi, ebrei o cristiani, perché il seme dell’odio è ormai impiantato».