«Questa terra è segnata da tante sofferenze anche nella nostra Diocesi: drammi familiari, violenza nelle case, nelle strade. Il Signore con la sua benedizione ci aiuti a essere seminatori di pace, tessitori di una relazione che aiuti a superare queste forme di violenza. La benedizione del Signore arrivi anche nei posti di lavoro dove ci sono troppe vittime travolte da incidenti. Invoco la benedizione sulle carceri, che sono luogo troppo spesso di tragedie e di difficoltà che sembrano intollerabili, e su tutti i luoghi dove vi è sofferenza e povertà. La presenza dei cristiani, l’opera della Chiesa siano un segno di questa benedizione».
È questo l’auspicio che l’Arcivescovo esprime, come una consegna, al termine del Pontificale della Natività della Beata Vergine Maria, da lui presieduto in Duomo, con cui si è aperto come tradizione l’anno pastorale dell’Arcidiocesi.
Rito solenne – in cui si svolge anche l’ammissione di 3 candidati al diaconato e al presbiterato e 8 al diaconato permanente – , concelebrato da 7 vescovi, dal Capitolo metropolitano della Cattedrale, dai membri del Consiglio Episcopale Milanese, da parroci e preti che sono punti di riferimento per gli ammittendi, da molti superiori del Seminario, con il rettore don Enrico Castagna e da decine di altri sacerdoti per un totale di circa 150 presbiteri.
Molti i diaconi permanenti presenti, con il rettore per il diaconato permanente don Filippo Dotti, concelebrante, e i fedeli, tra cui le famiglie e tanti amici dei candidati.
Aprono la Messa il canto dei 12 Kyrie ambrosiani e il simbolico omaggio floreale e di un cero da parte di una famiglia e di una consacrata, alla settecentesca icona della Madonna posta in altare maggiore. Cero, poi, acceso in segno del cammino che inizia dall’Arcivescovo. La cui omelia richiama idealmente l’unico amore che salva con la sua grazia – il Signore – secondo la logica della Proposta pastorale per l’anno 2024-2025, già pubblicata nel giugno scorso con il titolo “Basta. L’amore che salva e il male insopportabile”.
Segnati dal fallimento
«Abbiamo dentro un desiderio, un orientamento a fare del bene, una specie di sogno di essere buoni e di dare gioia a quelli che amiamo, una sorta di legge che ci prescrive di fare il bene ed evitare il male. Ma non ci riusciamo, i nostri propositi si rivelano spesso e presto impraticabili.
Sì, siamo d’accordo che questa situazione di guerra è insopportabile, che la crudeltà che uccide, tormenta, spaventa, tortura è intollerabile, che sono inammissibili gli sperperi enormi impiegati per distruggere e uccidere, per rovinare città e paesi. Vorremmo la pace, la riconciliazione, ma siamo impotenti, non riusciamo neppure a far sentire la nostra voce e il nostro sdegno in modo che incida nelle scelte che i grandi della terra compiono», spiega il vescovo Mario che aggiunge. «Vorremmo una città dove sia bello abitare, una città giovane, accogliente, con tanti bambini contenti e tante famiglie serene. Ma constatiamo che la città invecchia, le famiglie sono stanche e vivono una frenesia logorante e tensioni esasperanti: ci piacerebbe costruire comunità unite, liete, ricche di futuro, ma se calcoliamo i risultati, constatiamo il nostro fallimento».
Aprirsi alla salvezza
Eppure, la storia umana, per chi crede, è storia della salvezza. «Dentro il destino di impotenza e di sconfitta c’è una rivelazione dell’opera di Dio che salva mandando il proprio Figlio in una condizione di fragilità, come quella di tutti, perché si apra la via della salvezza per coloro che camminano non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Dunque, Dio opera in Gesù la sua salvezza e la rende accessibile e disponibile per tutti: non come un’utopia che crea d’incanto una società perfetta, un mondo felice, una soluzione definitiva ai problemi che affliggono l’umanità. Perciò cerchiamo di correggere l’inclinazione diffusa a immaginare Dio senza dipendere dalla rivelazione di Gesù». .
In questo senso, sottolinea l’Arcivescovo, il ricordo del concilio di Nicea, di cui si ricorda il 1700esimo anniversario l’anno prossimo, «può essere per noi un rimprovero: si ha, infatti, l’impressione che il linguaggio diffuso e anche la pratica ordinaria orientino a dimenticare la mediazione di Gesù, a fare a meno di lui, l’unico mediatore tra Dio e gli uomini».
Il preoccupante abbandono dell’Eucaristia
Sintomo preoccupante di questa tendenza, sempre più evidente ai giorni nostri, «è la consuetudine di abbandonare la celebrazione del segno che Gesù ha indicato perché si celebri il memoriale della sua opera di salvezza, cioè l’Eucaristia. La Messa sembra ridotta a una cerimonia che può piacere o annoiare. Forse per questo i buoni propositi sono troppo inconcludenti, l’impegno risulta frustrante, forse per questo il cristianesimo si presenta con una sorta di tristezza per l’elenco delle cose che si dovrebbero fare, ignorando la gioia di essere in comunione con Gesù, con la pienezza della sua gioia».
La vita come vocazione a servire
Così come, invece, testimonia il “sì lo voglio” dei candidati, che seguendo i diversi carismi del presbiterato o del diaconato permanente rispondo a un’unica chiamata.
«L’opera di Dio – scandisce ancora l’Arcivescovo – si compie in Gesù e Gesù entra nella storia umana come la voce amica che chiama alla sequela. La salvezza che Dio opera in Gesù non è in primo luogo un evento cosmico, ma una comunione, una relazione personale, cioè la vocazione. Sono qui davanti a noi uomini di fede che si fanno avanti per dichiarare che intendono la loro vita come risposta al Signore che li chiama, per servire la Chiesa e il popolo cristiano al quale saranno destinati con l’ordinazione diaconale o presbiterale. Noi facciamo festa e ci congratuliamo per il passo che compiono, ma facciamo festa perché sono docili, sono servi, non eroi, non perché sono protagonisti, ma giovani nature libere che si fanno avanti perché vogliono rispondere alla vocazione con cui il Signore li chiama a uno a uno compiendo quell’opera di salvezza che in Gesù si rivela sempre a livello personale».
Il richiamo, specie per i candidati, è a non perdere mai tale relazione personale. «Forse ci aspettano prove, ma non proveremo altra angoscia, se non quando sentiamo di avere perso Gesù», così come accadde a Maria – modello per tutta la Chiesa – «per la quale il vero momento di angoscia e di tristezza fu quello in cui aveva smarrito Gesù. Forse la Chiesa rischia di affliggersi per molte cose, ma da troppo per scontato di possedere Gesù tanto che non lo cerca».
Poi, il rito di ammissione con la presentazione degli aspiranti che, chiamati per nome a uno a uno si portano ai piedi dell’altare maggiore, il loro “Sì, lo voglio” e il “Sì, acconsento” delle mogli dei candidati al diaconato permanente (7 su 8 sono sposati) e il prosieguo della celebrazione, giungendo alle parole finali dell’Arcivescovo precedute da quelle del vicario generale, monsignor Franco Agnesi, relative ai più importanti cammini che attendono nel nuovo Anno pastorale, dall’entrata in vigore della II edizione del Messale ambrosiano nella prima domenica di Avvento, al Sinodo universale dei vescovi e alle Assemblee sinodali in Diocesi, fino al Giubileo del 2025 e all’attenzione riservata dalla nostra Chiesa ai Consigli pastorali. Con la benedizione papale, cui viene annessa l’indulgenza plenaria e il canto corale della “Salve Regina” di conclude il Pontificale, mentre fuori della Cattedrale è già festa per gli ormai ammessi al diaconato e presbiterato.
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