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Anniversario

«Schuster, il monaco rigoroso che poneva Dio sopra tutto»

Settant’anni fa, il 30 agosto 1954, moriva il Cardinale oggi Beato. Carità, spiritualità e cultura caratterizzarono il suo lungo episcopato ambrosiano, durante il quale la sua autorità morale emerse nitida nel periodo del regime fascista e della guerra. Lo ricorda lo storico Agostino Giovagnoli

di Annamaria BRACCINI

27 Agosto 2024
Il cardinale Schuster nei giorni della Liberazione

Settant’anni fa, all’alba del 30 agosto 1954, moriva nel Seminario di Venegono Inferiore da lui tenacemente voluto, quasi un’abbazia per la formazione del clero ambrosiano, il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. Come raccontano le cronache dell’epoca, i suoi funerali – partiti dal Seminario e conclusi in Duomo a Milano, dove l’orazione funebre fu tenuta dal patriarca di Venezia Angelo Roncalli – furono «un trionfo di popolo», che lo onorava già come santo. A concreta e umanissima dimostrazione di quanto lo stesso Arcivescovo aveva detto pochi giorni prima di morire ai seminaristi: «Altro ricordo non ho da darvi che un invito alla santità: la gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione, ma di fronte alla santità ancora crede, si inginocchia e prega».

Il 30 agosto 1954 mancava solo una settimana all’8 settembre di quell’anno che avrebbe segnato il 25esimo anniversario del solenne ingresso di Schuster a Milano. Un quarto di secolo di magistero che aveva visto la costante e assidua presenza del Cardinale in terra ambrosiana, attuata mediante lo strumento privilegiato della Visita pastorale (percorrerà tutto il territorio diocesano per 5 volte, non interrompendosi nemmeno negli anni della guerra), ma anche – per esempio – con la consacrazione di 275 chiese e l’ordinazione di 1265 sacerdoti.

Cosa rappresenta oggi la figura del beato Schuster, «un monaco prestato a Milano»? Lo chiediamo ad Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che subito chiarisce: «Certamente il cardinale Schuster è stata una delle figure più significative all’interno dell’episcopato italiano nel lungo periodo che, in qualche modo, ha preparato il Concilio Vaticano II».

In che senso?
Si tratta, appunto, di un monaco benedettino caratterizzato da una profonda spiritualità e da una vasta cultura che – solo per citare un fatto – fin da giovane lo avevano portato a comprendere la necessità di superare la tradizione dell’antigiudaismo cattolico. Possiamo dire che questo carattere rigoroso e monastico abbia segnato tutto il suo complesso percorso esistenziale, sacerdotale ed episcopale. Esemplare può essere considerato il periodo del fascismo, verso cui, almeno agli inizi, aveva mostrato una certa apertura, per poi arrivare alla critica manifesta. Giustamente padre David Maria Turoldo diceva che Schuster «non fu né un fascista né un antifascista, ma un monaco e che, per lui, questo era tutto». Un uomo che poneva sempre e comunque Dio al primo posto e ciò forse spiega, appunto, alcune sue ingenuità nei confronti del regime, in particolare rispetto alla guerra di Etiopia che il Cardinale vide come un’occasione di espansione del cristianesimo.  

È indubbio che la promulgazione delle leggi razziali abbia scavato un solco profondo tra la Chiesa di Pio XI e il fascismo. Tanto che l’Arcivescovo, nella prima domenica dell’Avvento ambrosiano 1938, pronunciò in Duomo la famosa omelia nella quale definì il razzismo «un’eresia antiromana e anticristiana». Lo stesso Mussolini se ne ebbe a lamentare non poco…
Quell’omelia fu sollecitata da papa Ratti, ma esprimeva in profondità anche le corde più intime del cardinale Schuster, che era convinto dell’importanza della radice ebraica del cristianesimo grazie ai suoi studi: era un biblista, un grande orientalista e anche uno studioso di liturgia. Il clamore fu enorme, non a caso L’Italia pubblicò l’intera omelia in prima pagina e la cosa costò il posto al direttore Sante Maggi, nonostante l’appoggio incondizionato del Porporato.

Libro Riccardi
Lo storico Agostino Giovagnoli

Nel periodo più tragico della guerra Schuster rimase al suo posto, tanto da essere definito Defensor civitatis. Il prestigio di cui era circondato, a livello sia di popolo, sia di vertice, permise, secondo lei, l’incontro in Arcivescovado con Mussolini e il Cln?
Sì. Aver mantenuto una grande distanza nei confronti della Repubblica Sociale Italiana – pochissimi sacerdoti e certamente nessun vescovo collaborarono con quella costruzione-fantoccio – rese la Chiesa un punto di riferimento importante, anche se sgradito appunto all’autorità di Salò. Schuster è una figura credibile quando interviene per recuperare i corpi dei partigiani trucidati il 10 agosto 1944 ed esposti in piazzale Loreto, sfidando le autorità fasciste e naziste. Lo è altrettanto neanche un anno dopo, il 29 aprile 1945, quando agisce per far cessare lo scempio dell’esposizione dei cadaveri di Mussolini, della Petacci e di altri fascisti, sempre in piazzale Loreto. Testimonia così la potenza della pietà cristiana che è rivolta a tutti.

Nel dopoguerra il ruolo del Cardinale perse di incisività? 
Credo che dobbiamo tornare alla definizione di Turoldo, ossia del suo essere convinto dell’assoluto primato di Dio su ogni altra considerazione. Schuster vide quindi nel comunismo la grande minaccia e un nemico da combattere, rimanendo fermo sui grandi valori e principi, con uno sguardo, direi, contemplativo sul presente che si trovò a vivere. 

Schuster comprese e seppe interpretare la Chiesa di Milano e le punte della sua modernità, come fece da subito il successore Montini?
L’incontro tra Milano e il Cardinale fu profondo e felice e il suo ricordo è rimasto molto popolare tra i fedeli ambrosiani. Questo, naturalmente, ci interroga sul perché altri Arcivescovi non abbiano avuto la stessa capacità di interpretare l’anima e i sentimenti del popolo. Senza dubbio la carità è una nota molto importante nel suo episcopato, ma io credo che anche la sua stessa spiritualità, con radici tanto profonde, abbia accolto e, persino, anticipato il bisogno di ritrovare il «senso religioso», per usare un’espressione divenuta poi comune ai tempi del suo successore Montini. La credibilità di Schuster, quale uomo di fede, è qui.