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Memoria

«Con Montini una Chiesa che guarda alla città e si lascia interrogare»

Nell’anniversario della morte di San Paolo VI (6 agosto 1978) ripercorriamo i tratti salienti del suo magistero come Arcivescovo di Milano con l’aiuto di Giorgio del Zanna, storico che a quell’episcopato ha dedicato un recente volume

di Annamaria BRACCINI

6 Agosto 2024
L'arcivescovo Montini inaugura la Mensa di corso Concordia nel 1959

«Non nova, sed nove»: a Milano non servono cose nuove, ma un modo “nuovo” e ai milanesi non serve insegnare a guadagnare, ma a pregare. Lo diceva Giovanni Battista Montini, che un po’ temeva quella Milano, dove arrivò in un gelido e piovoso 6 gennaio 1955, giorno del suo ingresso solenne in Diocesi come Arcivescovo. Eppure, anni dopo, salito ormai al Soglio con il nome di Paolo VI, lo stesso Montini – scomparso la sera del 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione e oggi santo – ricorderà più volte come Milano sia stata la sua «palestra pastorale».

«Montini era un prete colto che fin da giovane aveva lavorato in Segreteria di Stato e che, quindi, giungeva a Milano con un’esperienza soprattutto diplomatica: l’unico impegno pastorale – comunque per lui molto importante – era stato quello di assistente nazionale della Fuci», spiega Giorgio Del Zanna, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica e recentemente autore del documentatissimo saggio Montini a Milano. «Per questo la sua vera esperienza pastorale fu a Milano – sottolinea ancora -. Al cardinale Johannes Willebrands confiderà che, se Roma era stata l’occasione per conoscere la Chiesa, è a Milano che aveva incontrato la Chiesa che vive e che lotta. L’esperienza ambrosiana fu l’immergersi in una Chiesa che affrontava grandi sfide».

Il divario tra vita e fede, già avvertito ai tempi della Fuci, viene percepito ancor più grave a Milano. Il concetto di “irreligiosità” – o meglio, della mancanza di “senso religioso” – è il cardine del magistero montiniano?
Montini percepisce che la fede cristiana deve trovare una sua vitalità più profonda, che si leghi anche alle dinamiche della società contemporanea, per poter rispondere alle sfide del tempo. In questo senso, avverte che c’è un allentamento della fede per i grandi cambiamenti culturali, antropologici, di costumi e di mentalità, indotti soprattutto dall’industrializzazione e urbanizzazione. Pur in un’Italia ancora fortemente credente e per cui si parlava di egemonia cattolica con i governi della Democrazia cristiana, il rischio c’è e l’Arcivescovo, con la sua lucidità e intelligenza, lo vede. Sono gli anni in cui l’Italia diventa, per la prima volta, un Paese industriale e meno rurale, con una modalità di vivere la fede che cambia, anche se il senso religioso non si è perso del tutto. La Lettera pastorale del 1957 muove proprio dall’idea che questa religiosità vada risvegliata in modo più autentico e, soprattutto, in una forma non solo personale, ma collettiva. Qui si colloca anche la necessità di dare centralità alla liturgia.

Che ruolo ha la Missione del 1957 nella comprensione della città e della sua evangelizzazione?
La Missione del 1957 è un evento epocale, non solo per le sue dimensioni: chiamati a predicarvi furono moltissimi sacerdoti, due Cardinali – Lercaro e Siri – , 24 tra Arcivescovi e Vescovi, tante delle figure più rilevanti e significative del cattolicesimo italiano di quegli anni, da Turoldo a Mazzolari e Barsotti. Fu un evento unico nella storia della Chiesa, che ha voluto essere uno strumento di comunicazione semplice e diretto, rivolto a tutti. Il significato profondo della Missione è quello di una Chiesa che va – e in effetti andò – verso i mondi anche più “lontani”, parlando in una forma simile a quella che papa Francesco chiama oggi «Chiesa in uscita». Una Chiesa che voleva vivere un’estroversione verso i mondi del lavoro, nei diversi campi della società, rivolgendosi a differenti categorie. La Missione, con il tema di «Dio Padre», fu un momento di comunicazione del Vangelo, guidato dalla logica di riconnettere le persone a una dimensione del trascendente, ma anche di fraternità umana. Bisognava, insomma, ricreare in termini spirituali un nuovo tessuto di unità in una società che andava verso una crescente frammentazione sotto la spinta del nuovo individualismo. La Missione del ’57 fu una risposta a ciò che andava mutando nella società.

Secondo lei, che cosa è ancora vivo dell’episcopato montiniano?
L’episcopato di Montini ha inciso molto. Il cardinale Tettamanzi ebbe a dire che la Missione di Milano è stato l’evento che più ha segnato la Chiesa ambrosiana nel Novecento. Montini ha introdotto l’idea di una Chiesa che guarda alla città e che vuole essere presente nelle sue diverse pieghe con l’attenzione privilegiata alle periferie: una Chiesa che si lascia interrogare. Credo che questa dimensione sia quella che in assoluto più rimane come eredità dell’episcopato di Montini. Una Chiesa che si concepisce dentro la città non come qualcosa di “alternativo” a essa, portando l’annuncio ai quei “lontani” che, negli anni Cinquanta, potevano essere gli operai e che oggi sono per esempio i migranti, spesso nemmeno cristiani.

È ovvio che un “Piano Nuove Chiese” oggi sarebbe inattuabile, ma – soprattutto nella città in modificazione continua – si potrebbero proporre luoghi aggregativi in realtà e quartieri che ne sono privi, a partire da una logica spirituale e religiosa? 
Nella città odierna, dove sempre più la grande malattia è la solitudine, la Chiesa può aggregare nuovamente le persone. Non è tanto o solo una questione di periferie. Laddove sono presenti le parrocchie, gli spazi possono essere ripensati al fine di facilitare l’incontro anche in una forma non necessariamente legata alle dimensioni tradizionali della vita cristiana. Spazi di umanità, di incontro e di scambio interculturale e interreligioso, in cui mettere insieme le generazioni, gli italiani e gli stranieri.  Le parrocchie sono un presidio fondamentale e, forse, questa è la possibilità che la Chiesa ha oggi per rispondere a quella periferia esistenziale che, magari, non è più geografica, ma della solitudine.