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Varese

Don “Vittorione”, esempio di vita che cambia e si fa vocazione

Nella basilica di San Vittore, l'Arcivescovo ha presieduto la Celebrazione eucaristica nel XXV della morte di don Vittorio Pastori, «uomo di straordinaria generosità che muove all'imitazione»

di Annamaria Braccini

10 Settembre 2019

La vita che, se è coerente con la luce della rivelazione, non può essere illuminata solo da un bagliore momentaneo, per quanto straordinario. L’esistenza che non può esaurirsi nell’emozione di un momento, ma che deve farsi vocazione e speranza anche nella tribolazione e di fronte al dolore del mondo.
È modellata sulla figura di don Vittorio Pastori – il famoso benefattore “don Vittorione” -, l’esemplarità cristiana che l’Arcivescovo delinea in un’affollatissima basilica di San Vittore a Varese. È lui che presiede, infatti, l’Eucaristia – momento centrale delle Celebrazioni dedicate a questo grande apostolo della carità varesino, nato a pochi metri da “San Vittore”, salito alla casa del Padre il 2 settembre 1994 -, di cui si ricorda solennemente il XXV della morte. Per l’occasione concelebrano il vescovo di Piacenza-Bobbio, monsignor Gianni Ambrosio, il vescovo emerito di Pavia, monsignor Giovanni Giudici e monsignor Damiano Guzzetti, originario di Varese e vescovo di Moroto in Uganda.
In prima fila non mancano le autorità, tra cui il sindaco della città, Davide Galimberti e la vicesindaco di Piacenza, Elena Baio. Accanto a loro, tra tanti volontari, il presidente di “Cooperazione e Sviluppo Ong”, nata nel 1982 e attivissima in Uganda, Carlo Antonello, e di “Africa Mission”, sorta dieci anni prima, don Maurizio Noberini. Due Associazini, parte dell’unico movimento frutto dei tanti viaggi in Africa di Vittorio Pastori, ristoratore di grande successo, poi ordinato sacerdote nel 1984, legato da profonda amicizia e affinità spirituale a monsignor Enrico Manfredini, prevosto di Varese, Vescovo di Piacenza (che lo portò appunto con sé nella città emiliana come economo) e, infine, per pochi mesi, arcivescovo di Bologna. Poco prima della Messa, sul sagrato della Baslica, proprio monsignor Ambrosio e il prevosto don Luigi Panighetti accolgono la fiaccola, portata a mano dai tedofori, partiti all’alba da Castello presso Piacenza. Poi, la processione dall’antico Battistero alla Chiesa dove il Prevosto, nel suo saluto iniziale, legge il telegramma inviato dal Santo Padre che ricorda il grande insegnamento spirituale di don Vittorione con l’auspicio che «quanti lo hanno conosciuto raccolgano l’eredità di questo “nomade per amore”».

L’omelia

Dopo il suo personale ringraziamento per un «uomo di straordinaria generosità e intraprendenza che muove all’imitazione», l’intera omelia dell’Arcivescovo è un invito a sfuggire alle tenebre per aprirsi alla luce della speranza.
Seguendo la pagina del Vangelo di Matteo al capitolo 4, infatti, dice: «Uomini e donne hanno talora l’impressione di abitare in regioni e ombra di morte. La terra appare desolata, tribolata, pericolosa, segnata da una malattia che non lascia speranza e mortale. Ma una luce è sorta, appare uno splendore, una gloria: questo permette di vedere la vita in un modo nuovo, splendido, glorioso.
Chi vede la grande luce vibra di un’emozione, di un entusiasmo, di una gioia sorprendente e però vera, immeritata, eppure attesa, nuova, eppure da sempre necessaria».
Me cosa è questo splendore nell’esperienza che tutti abbiamo?
«La grande luce può essere l’incontro con una persona per costruire insieme una vita, può essere un incontro con una povertà sconosciuta, può essere un’esperienza di preghiera, un’esperienza mistica, può essere l’incontro con una persona straordinaria per il carisma di cui è dotato, per la storia che sta vivendo».
Così come accadde certamente a don Vittorio e poi a chi lo conobbe e ora a coloro che ne proseguono l’opera.
Ovvio – e sottolineato con chiarezza dall’Arcivescovo – che questo essere alla sequela non si può, però, esaurire in una sorta di “momento magico”.
«Per alcuni la luce, così come in un istante è apparsa, in un istante scompare: è stato bello, è stato emozionante, abbiamo qualche cosa da raccontare, ma è un passato terminato. Forse rimane un ricordo, ma la vita poi continua ad abitare nella regione e nell’ombra di morte.
Per altri, invece, la rivelazione sorprendente e inaspettata cambia la vita, convince ad aprire gli occhi e a guardare la realtà in un modo nuovo e a intraprendere nuovi cammini.
La domanda che non possiamo evitare è quindi: come la luce può continuare a illuminare chi abita nelle tenebre? Quale grazia, quali scelte, quale disciplina di vita può dare continuità alla rivelazione anche quando l’emozione è passata, anche quando l’entusiasmo è finito?».
Il riferimento non può che essere a don Pastori che «ha testimoniato di aver visto una luce. La rivelazione è stato, per lui, il primo viaggio in Uganda, un episodio che si è chiuso».
Proprio perché «quella rivelazione lo ha convinto a impegnare la sua vita per dare soccorso a gente che viveva in condizioni di povertà estreme e ha fatto di questo la ragione per vivere e un motto: “Chi ha fame, ha fame subito, chi ha sete, ha sete ora, chi soffre, soffre adesso”, non ritenendo, quindi, che si potesse rimandare l’intraprendere una forma di soccorso. La rivelazione è diventata una vocazione».
​L’ammirazione, la responsabilità per l’eredità lasciata da Vittorio, la celebrazione del convegno per il XXV della morte non possono esprimersi solo in un panegirico per questo figlio della terra varesina, così ammirato, o in una qualche forma di supporto per “Africa Mission” che si conclude oggi».
​La consegna è a ricordare, certo, ma insieme a essre perseveranti.
«“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. L’annuncio del Regno ha la potenza di trasformare la vita di convertire l’animo umano. Significa l’invito a vivere una vita nuova, a cambiare vita, a considerare la vita non come una sistemazione, ma come una vocazione, non come una carriera per conquistare un successo o un consenso, ma come un’obbedienza che conduce a salvezza.
La conversione, insomma, è l’urgenza di un nuovo inizio, anche se non sempre lo sconvolgimento delle condizioni dell’esistenza come fu per don Vittorione.
«Non tutti sono chiamamti a cambiare in modo così radicale, ma tutti sono chiamati a uno stile di vita coerente, a uno sguardo sulla realtà, a una speranza e una trepidazione per l’umanità che vive sulla terra, non secondo i luoghi comuni comandati dai registi dell’informazione».
Infine, il riferimento è all’indicazione paolina per una vita, appunto coerente, anche nei momenti difficili.
«La perseveranza nel rispondere alla vocazione ha bisogno di pazienza e di speranza: la pazienza è un modo di resistere alla tribolazione, una tenacia che fa fronte, una considerazione delle tribolazioni che le ridimensiona perché si affida alla promessa. Se siamo nella tribolazione, ma viviamo coerentemente con la luce che abbiamo ricevuto, non siamo autorizzati a lamentarci, a deprecare il tempo in cui viviamo, a formulare analisi dettate da un pessimismo che non vede vie di uscita e porta alla rassegnazione. La tribolazione produce pazienza che porta virtù, che a sua volta, genera speranza.
​La nostra preghiera per don Vittorione, la nostra ammirazione per quello che ha fatto e per quello che “Africa Mission” continua a fare, la riconoscenza e la documentazione su questo frammento della storia della solidarietà internazionale, non si limiti a una celebrazione, ma sia come un bagliore che dissipa la tenebra e ci permette di vedere il mondo in un mondo nuovo. Questo bagliore è rapido come un’emozione, ma noi avvertiamo in questa emozione una vocazione. E siamo decisi a portarla a compimento. Sentiamo inquietante la domanda del Signore, “Ma tu cosa ne hai fatto della luce?”».
Al termine della Celebrazione, nella quale le offerte raccolte sono destinate alle opere in Uganda, arriva anche il caloroso saluto finale di don Noberini, attento a sottolineare il dovere di essre discepoli nella logica della missione, così come vuole papa Francesco.

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