Hanno da subito attivato una modalità di emergenza, gli abitanti del villaggio israeliano di Neve Shalom – Wahat al Salam, dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Una procedura in cui si rafforzano i momenti di dialogo e di confronto, perché ciò che si vuole preservare non è soltanto la sicurezza, ma soprattutto il clima di riconoscimento reciproco costruito in oltre cinquant’anni.
È un piccolo segno di speranza per israeliani e palestinesi, il villaggio «Oasi di pace» (questa la traduzione italiana del doppio nome, in lingua ebraica e araba) a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, fondato agli inizi degli anni Settanta dal domenicano Bruno Hussar e che ora conta novanta famiglie, equamente distribuite tra israeliani e palestinesi. È l’unica comunità in Israele dove famiglie dei due popoli vivono insieme per scelta, basandosi su un modello di uguaglianza, democrazia e reciproca legittimazione.
Due importanti membri saranno sabato 11 maggio a Milano: l’appuntamento è alle 10.30 presso la sede di Caritas Ambrosiana, in via San Bernardino 4. A raccontare come prosegue anche in questo drammatico periodo l’impegno quotidiano per la convivenza ci saranno Samah Salaime (palestinese, portavoce della comunità) e Nir Shalom (israeliano, co-direttore insieme a Samah delle istituzioni educative del villaggio).
Con gli attacchi del 7 ottobre «abbiamo perso amici, abbiamo palestinesi che hanno familiari a Gaza, ebrei che hanno parenti negli insediamenti attorno a Gaza che sono stati colpiti negli attentati», testimonia Salaime. Ora, nella comunità, «ci diciamo che siamo qui gli uni per gli altri; ci diciamo di soffrire insieme, proviamo a vivere forme di solidarietà. Dialoghiamo, rendiamo la comunità uno spazio sicuro per parlare del conflitto e di come essere attivi contro la guerra».
«Dal 7 ottobre nel villaggio si sono organizzati incontri di comunità, prima solamente tra israeliani e palestinesi e poi in gruppi misti», precisa Giulia Ceccutti, dell’Associazione Amici di Neve Shalom Wahat al Salam (che organizza l’appuntamento di sabato, vedi qui il programma). Incontri che «consentono a ciascun gruppo di appartenenza di comprendere le aspettative che si nutrono tanto al proprio interno quanto verso l’altro». E una ragazza ha ideato la “tenda del lutto”, dove ciascuno può condividere il proprio vissuto: «Alcuni, prima, non avevano raccontato di avere familiari morti a Gaza», racconta ancora Ceccutti.
Quale soluzione per la pace?
«Non esiste una vera soluzione senza una vera pace. Non ci sono scorciatoie; non possiamo vivere in tranquillità e sicurezza senza riconoscere i pieni diritti di ogni singolo essere umano, palestinese, israeliano, ebreo, arabo, che vive tra il fiume e il mare», aveva scritto Salaime subito dopo il 7 ottobre. Un concetto che ribadisce – insieme alla convinzione, che non è venuta meno – della necessità di non arrendersi nel continuare a promuovere la pace. Senza pensare che nessun traguardo, nessun risultato raggiunto sia anche garantito. «Israeliani e palestinesi hanno trascurato il dialogo negli ultimi vent’anni, e ora ne stiamo pagando le conseguenze», osserva infatti la portavoce.
Ceccutti aggiunge che, se nella comunità c’è stanchezza, c’è però anche un’incrollabile motivazione ad andare avanti, nella convinzione che la soluzione non violenta del conflitto sia l’unica possibile. Una convinzione sostenuta da pratiche di pace ormai consolidate, e che le famiglie più giovani della comunità, come quella di Nir Shalom, desiderano anche per i propri figli, e non solo: l’85% degli alunni che frequentano la scuola binazionale del villaggio, infatti, viene dalle città vicine.
«Anche ai nostri amici italiani chiediamo innanzitutto di non arrendersi al conflitto – fa appello Salaime -. Seppur minoritari, in Israele ci sono ancora gruppi che si battono per la pace. E dall’Italia abbiamo bisogno della vostra voce».