Nel 2017 fecero scalpore le parole dell’allora ministro Poletti: «Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curriculum». Zamora, di Neri Marcorè, si muove all’interno di questo assunto. Tratto dal romanzo del giornalista sportivo Roberto Perrone, il film trasporta in un’Italia degli anni ’60 fatta di opportunità.
Alberto Paradossi interpreta Walter Vismara, un giovane contabile timido e impacciato, costretto a trasferirsi per lavoro a Milano. Una città a lui estranea per spazio che per mentalità. Si trova infatti invischiato in un serissimo torneo aziendale ordito dal capo, il “cavalier Tosetto” (Giovanni Storti), accanito tifoso interista. Scapoli contro ammogliati. Una sfida a calcio che si tiene ogni primo maggio. al centro della vita dell’ufficio. Vietato sottrarsi! A Walter, drammaticamente scarso anche nel ruolo di portiere, non restano molte scelte. Provare a imparare alla svelta il gioco del calcio, o accettare di subire continue angherie dai colleghi, che già gli hanno affibbiato ironicamente il soprannome di Zamora (portiere spagnolo degli anni ’30).
Si farà aiutare da Giorgio Cavazzoni (Neri Marcorè), un talento sportivo finito in disgrazia. L’esordio alla regia di Marcorè è un dispositivo costruito per viaggiare nella nostalgia. Questa simpatica vicenda, nonostante qualche ammiccamento e qualche scena di troppo, è uno spaccato psicologico dell’Italia di ieri e di oggi. Dove il calcio non è più sport, ma è un lubrificante sociale. Una “fede” che definisce l’identità di una persona sulla base della tifoseria a cui appartiene. Non c’è modo di uscirne: l’obbligo, per il “bravo” dipendente, è adeguarsi come fan tutti.
La regia non sottolinea però criticamente questo, anzi, individua tutte le ritualità con una grande passione. L’attualità satirica del film consiste soprattutto nelle fantozziane dinamiche aziendali, dove sfilano importanti volti della comicità italiana. La scena migliore è un confronto tra il personaggio interpretato da Storti e quello di Giacomo Poretti. I due, del trio “Aldo, Giovanni e Giacomo”, hanno una chimica straordinaria di cui il film si accorge troppo tardi, relegandola purtroppo solo a uno sprecato cameo. Un rigore sbagliato al 90º in una partita ben giocata.