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Storia

Pio XII, tra profezia e pragmatismo

Per il ciclo «La Scuola della Cattedrale», Matteo Luigi Napolitano, autore di un volume sul contestato pontefice, si è confrontato con il giornalista Andrea Tornielli in un incontro presso la chiesa di San Gottardo in Corte

di Annamaria BRACCINI

12 Marzo 2024

Forse poche questioni, relative al papato di Pio XII e al periodo bellico, sono ancora fonte di contrasti, nella ricostruzione e interpretazione storica, quanto la posizione assunta da papa Pacelli di fronte allo sterminio ebraico.

Per questo, l’importante appuntamento del Ciclo “La Scuola della Cattedrale”, presieduta da monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo di Milano, svoltosi presso la chiesa di San Gottardo in Corte, ha avuto il senso di un momento di riflessione assai significativo. A partire dalla pubblicazione del volume di Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle Relazioni Internazionali, Diplomacy and International Relations, presso l’Università degli Studi del Molise, Il secolo di Pio XII (Luni Editrice, Milano 2023), si sono così confrontati, moderati dal noto studioso ed editorialista Armando Torno, l’autore e Andrea Tornielli, giornalista, saggista e direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.

Particolarmente interessante il saluto di monsignor Borgonovo che ha richiamato il cambiamento di didascalia presente, sotto l’immagine di Pio XII, al memoriale ebraico di Yad Vashem. Prima del 2013 assolutamente critica dell’operato pacelliano e dopo quell’anno, in occasione della mostra “Sono il custode di mio fratello”, più possibilista sugli interventi comunque messi in essere dal Vaticano, attraverso rapporti diplomatici e l’accoglienza di ebrei in molti conventi e strutture.

I ringraziamenti al Papa degli anni ’50

Una visione sostanzialmente positiva di ciò che fece Pio XII condivisa da Napolitano e da Tornielli che ha ricordato personalità – anche del Rabbinato – che si espressero, dopo la guerra, ringraziando Pacelli. Tra loro, all’indomani della morte del Pontefice, Golda Meir, all’epoca ministro degli Esteri di Israele, il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, quello di Londra ed Elio Toaff di Roma che scrisse: «Più di chiunque altro noi abbiamo avuto modo di beneficiare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice». Senza dimenticare il segretario del Congresso Ebraico Mondiale, Leo Kubwitsky, che consegnò, a Montini nel 1945, 20.000 dollari (pari a circa 2mln di euro), per ringraziare il Papa di quanto fatto «in favore degli ebrei».

«Tutto questo ci dice – sottolinea Tornielli – che c’è stata una generazione che ha vissuto un abbaglio nei confronti del Papa, oppure che occorre riuscire a contestualizzare problemi, cercando di capire cosa sia avvenuto. Perché quella prima generazione di testimoni ha ringraziato? Se non si risponde a questo interrogativo, non si riesce ad affrontare il tema e a portare la questione fuori da contesti di contrapposizione ideologica».

Anche perché è certamente vero che Pacelli aveva un carattere molto diverso dal predecessore – l’irruente brianzolo Pio XI, Achille Ratti – che diceva molte cose anche fuori dai discorsi ufficiali parlando a braccio, tanto che la famosissima frase «spiritualmente siamo tutti semiti» non è presente in nessuna trascrizione, se non attraverso una registrazione riportata in Belgio. Ovvia, quindi, la necessità di un attento lavoro storico documentale, laddove «gli archivi testimoniano che non si ci sono “pistole fumanti” contro il Papa che ha creduto di avere fatto quello che era possibile fare, come scrisse nel suo testamento spirituale», osserva ancora Tornielli. Così come propone Napolitano nel suo saggio in cui vengono pubblicati per la prima volta alcuni importanti documenti rinvenuti negli Archivi vaticani, esibiti durante la serata.

Quante divisioni ha il Papa?

«Lo storico lavora per un passato migliore e questo significa lasciar parlare i documenti e contestualizzarli», scandisce, infatti, l’autore. «Se contestualizziamo i fatti capiamo una serie di circostanze. Studiare gli Archivi vaticani è una delle questioni, ma non è l’unica o la principale. Perché ciò che il Papa ha fatto o non ha fatto sulla questione ebraica, è illuminato anche da altri documenti, come quelli presenti a Yad Vashem che parlano di oltre 4700 ebrei ospitati. Effettivamente Pio XII si rifiutò di firmare una dichiarazione contro i crimini nazisti nel dicembre 1942, ma non si considera mai che era il capo di uno Stato neutrale e che, solo una settimana dopo, il 24 dicembre 1942, in un radiomessaggio, il Santo padre parlò di coloro stavano soffrendo solo per ragione di “stirpe”».

Inoltre, «quando, il 30 agosto del 1943 – una settimana prima del fatidico 8 settembre -, gli americani hanno pronta una dichiarazione, questa viene bloccata dagli inglesi perché non “ci sono prove certe delle morti nelle camere a gas” e alla mancanza di prove allude persino il Congresso Ebraico Mondiale. Questi sono i problemi con il quale il Papa si deve misurare, accertando delle notizie che non possono essere verificate».

Come a dire, la frase di Stalin che chiede quante divisioni abbia il Papa non è una «boutade», ma risponde a una visione e a posizioni del tempo.

«Lo storico deve capire come si ragionava allora e non fare discorsi moralistici. I documenti tedeschi delle SS ci consegnano un Papa fortemente criticato per le sue Encicliche come quella in favore della Polonia, considerata contro la Germania. La storia è qualcosa che si costruisce con i documenti».

Le sintonie tra il passato e il presente

Sollecitato da Torno, su quale sia stato lo stile del Papa in tempo di guerra, Andrea Tornielli, inchiaro riferimento alla più stretta attualità, spiega.

«Ci sono più sintonie tra i Papi degli ultimi 70 anni di quello che potremmo immaginare. Quando papa Pacelli parlato di “stirpe” nel messaggio della vigilia del Natale 1942, tutti sapevano a chi alludesse, basti pensare alla “stirpe deorum”. Così anche oggi si critica Francesco, ma quando ci si indigna, si dimentica che la Chiesa cerca di parlare con tutti, tentando di non farsi arruolare e tenendo aperta la porta. Infatti, l’ultimo ambasciatore a lasciare Berlino, nella catastrofe del crollo del regime hitleriano, fu il nunzio apostolico Cesare Orsenigo, non perché vi fossero simpatie filonaziste, ma per aiutare».

La questione è l’equilibrio, insomma, (ieri come ora) tra profezia e pragmatismo, salvando vite umane e non precostituendosi alibi, magari molto utili un domani. E tutto questo con quella che Tornielli definisce «una postilla finale: ossia che la consapevolezza è cresciuta negli anni, perché non vi era particolare percezione dell’unicità della Shoah. Come ha sostenuto Paolo Mieli nel 2001, tale percezione, come atto fondativo dello Stato di Israele, avviene solo con il processo Eichmann quando l’enormità dello stermino diventa coscienza comune. Il Papa – che viveva il suo tempo – era probabilmente convinto di aver fatto il possibile, e infatti fu ringraziato per quello che aveva fatto e non per quello che non aveva detto».

L’impegno concreto del Papato

Infine Napolitano, sul presunto silenzio, conclude. «Tutto dice di un impegno fattivo del Papa e dei suoi collaboratori nell’allertare le proprie reti collaborando con altre reti di soccorso anche se nessuno sapeva quando sarebbe finita la guerra. Le relazioni internazionali, i rapporti scritti e regolari con cui monsignor Anichini, arciprete di San Pietro, riferiva al Papa della persone nascoste nelle pertinenze vaticane, compreso Castegandolfo o i 25 appartamenti affittati a Budapest dalla Santa Sede e, dunque, creando zone extraterritoriali; i contatti diplomatici di Paesi neutrali quali la Svezia, con Wallenberg, gli esponenti vaticani “Giusti tra le Nazioni” o l’allontanamento di sacerdoti filonazisti come quel prete slovacco, tra i prelati domestici di Sua Santità, subito sollevato dall’incarico appena si scopre che ha scritto un articolo festeggiando i 52 anni di Hitler non sono che esempi e si potrebbe continuare con tanti altri Paesi».

E, poi, l’episodio che, forse, spiazza più di ogni altro chi non è ancora del tutto convinto che Pio XII abbia fatto proprio tutto il possibile, ossia «la prima vera apertura archivistica del Vaticano», che data 1946 in occasione del processo di Norimberga. Allorché «la Santa Sede decide di fornire una gran quantità di documenti ai giudici, al punto che l’avvocato di Hans Frank, famigerato governatore della Polonia occupata, ferma il processo e chiede se il Vaticano si sia unito alla Corte, al Collegio giudicante».