Il Senato della Repubblica ha recentemente approvato il disegno di legge presentato dal ministro Calderoli volto a meglio disciplinare la previsione (già presente in Costituzione dal 2001), circa l’eventuale richiesta di maggiore autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria da parte delle Regioni a statuto ordinario.
Il dibattito sul tema, al di là dei momenti elettorali e delle ricorrenti fiammate “riformiste” che caratterizzano ogni legislatura, aveva avuto un significativo momento di attenzione anche nell’opinione pubblica tra il 2017 e il 2019, quando Veneto, Lombardia ed Emilia avevano formalmente chiesto al governo Gentiloni la realizzazione della prevista “intesa”, non raggiunta a seguito del fine legislatura, su una serie di materie (peraltro diverse tra le tre Regioni). In Lombardia l’avvio di questa interlocuzione con il governo era stato preceduto da un referendum consultivo tenutosi il 22 ottobre del 2017, con un esito quasi totalmente favorevole dei votanti sul quesito posto di sostenere la richiesta di “maggiore autonomia”, a fronte di una partecipazione dei lombardi che aveva di poco superato il 38% degli aventi diritto. Il referendum aveva lasciato sul campo (oltre che i 20 milioni di euro di tablet usati per votare omaggiati alle scuole perché inutilizzabili per altre elezioni) lacerazioni evidenti nelle forze di centrosinistra, con una divaricazione significativa tra numerosi amministratori locali favorevoli e la posizione ufficiale contraria del Pd; più mascherati e sottotraccia i distinguo nelle forze politiche di centrodestra (con Fi e FdI regionali tiepidamente favorevoli, ma preoccupate a livello nazionale di minare l’unità del Paese).
Venendo all’oggi il testo approvato al Senato esclude con più precisione, peraltro restringendole, le materie di rilievo unitario nazionale nelle quali non può essere chiesta maggiore autonomia e precisa che la formalizzazione della richiesta da parte delle Regioni deve prevedere un coinvolgimento degli enti locali. L’intesa raggiunta, previe le verifiche tecniche e di compatibilità economica, è oggetto di un disegno di legge di iniziativa governativa. Ma il nodo principale che la legge intende sciogliere (e che negli anni ha contribuito a bloccare ogni ipotesi di autonomia differenziata) è relativo a come fare in modo che il trasferimento di funzioni non generi minori diritti civili e sociali ai cittadini o diritti differenti tra Regioni.
Tecnicamente il testo conferma nei Lep, cioè nella definizione di Livelli essenziali delle prestazioni, il meccanismo che sovrintende la garanzia dei diritti. Ma poiché i diritti devono essere “esigibili” occorre garantire la presenza di organizzazioni, servizi e risorse adeguate al loro soddisfacimento: entra quindi in gioco un altro concetto, vale a dire i fabbisogni e i costi standard suddivisi per le materie nelle quali le Regioni intendono esercitare maggiore autonomia. Lep e fabbisogni sono le condizioni necessarie per la devoluzione di materie e con appositi decreti andranno puntualmente individuati: i Lep riferiti all’intero territorio nazionale (con una ricognizione e identificazione che ora esiste solo in alcuni settori, ad esempio sociale e sanità), i fabbisogni declinati nelle specifiche realtà regionali e con le necessarie verifiche sulla spesa storica.
Una norma di salvaguardia prevede che l’intesa non possa realizzarsi in caso di sotto finanziamento dei fabbisogni standard fino a che non vi sia la dotazione di adeguate risorse e nel testo numerosi sono i riferimenti alle compatibilità economiche e ai vincoli della spesa pubblica ai quali i processi di autonomia vengono in qualche modo subordinati.
Tocca ora alla Camera approvare in via definitiva la legge che ha avuto minore attenzione nell’opinione pubblica sia per la tecnicalità della materia che per la maggiore evidenza data (almeno comunicativamente) alle ipotesi della distinta riforma costituzionale sul premierato.
Qualche considerazione conclusiva si rende doverosa. In termini generali, oltre le connessioni tra maggiore autonomia-diritti-risorse, occorre chiedersi concretamente su quali materie ha oggi senso reclamare più competenze regionali. La pandemia, l’emergenza ambientale e in primis quella energetica, l’evoluzione dei mercati a seguito della globalizzazione “non governata” prima e delle guerre poi, ci hanno insegnato che le dinamiche da affrontare sono sempre più interconnesse e non seguono certo i confini amministrativi, nemmeno regionali.
Pensare che su questi temi un livello ristretto di territorio sia in grado di imprimere cambiamenti e incidere positivamente e più efficacemente in radice su processi di sviluppo territoriale e sociale è un assunto da verificare con grande attenzione ai dati, ai livelli di responsabilità e reclama saggezza nelle scelte. Facciamo esempi concreti: il futuro dell’Ilva di Taranto è un tema territoriale/regionale o con forti interconnessioni sulle politiche industriali di tutto il Paese? Il futuro strategico di Malpensa, ma più in generale la programmazione in Lombardia di ben 5 scali è tema regionale o sovraregionale? Le comunità energetiche rinnovabili, pur trovando nei territori il luogo vero di senso per autoprodurre e condividere, possono essere a geometria variabile nelle Regioni quando la disciplina programmatoria e tariffaria è unica per il Paese? Se ogni Regione paga diversamente gli insegnanti, i medici, i professionisti dei servizi pubblici in base al reale costo della vita e della competitività non rischia di avvallare differenze e disuguaglianze nel Paese?
Insomma, come i Vescovi italiani e alcune conferenze episcopali hanno evidenziato criticamente in relazione al testo approvato, bisogna evitare che l’autonomia differenziata acuisca le disparità nel Paese, si risolva in più potere alle Regioni (forse), ma più debolezze nelle comunità. Se è vero che una maggiore autonomia può anche servire a responsabilizzare i diversi livelli istituzionali, oltre che basarsi su corretti Lep e avere adeguate risorse, deve anche declinarsi con il principio di sussidiarietà prevedendo un forte coinvolgimento degli enti locali e delle formazioni sociali ed economiche del territorio. Su questo non depongono positivamente lo stallo normativo e finanziario che ancora vivono le Province, la mancata riforma dei piccoli e medi Comuni (che in Lombardia rappresentano la stragrande maggioranza) e la presenza ancora di numerosi enti sovracomunali spesso con competenze sovrapposte.
Se si vuole evitare un neo-centralismo regionale, spesso peraltro piegato su elementi gestionali anziché normativi e programmatori (vedi in Lombardia la sanità e il trasporto pubblico ferroviario in particolare), occorre prima rafforzare l’intelaiatura istituzionale nel rispetto dell’articolo 5 della Costituzione che prevede nelle autonomie locali il perno dell’Amministrazione.
(*) Presidente di Uneba Lecco e coordinatore della commissione Pnrr e riforme di Uneba Lombardia; impegnato nel settore dei progetti innovativi della Fondazione Sacra Famiglia e collaboratore del Servizio per la pastorale sociale e del lavoro della Diocesi