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La guerra in Europa

Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Ucraina

Shevchuk: «Non dimenticateci, la solidarietà salva la vita»

La gratitudine per gli aiuti, la “pastorale del lutto” sviluppata dal clero locale, la forza alimentata dalla fede in mezzo alla morte quotidiana. I sentimenti del capo della Chiesa greco-cattolica dopo due anni di guerra

di Svitlana DUKHOVYCH

23 Febbraio 2024
L'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina

Da Vatican News

«Chiediamo al Signore la pace per la nostra gente, chiediamo che questa guerra finisca il prima possibile, chiediamo al Signore che ci protegga dalla sofferenza, dalla morte. Ma è importante essere consapevoli che il Signore è più pronto a dare che noi a chiedere. Questo ci dà la speranza». A colloquio con i media vaticani, l’arcivescovo maggiore di KyivHalyč Sviatoslav Shevchuk, descrive così l’anelito alla pace che alberga nel cuore del popolo ucraino. Un anelito accompagnato dalla preghiera quotidiana, così come quotidiano è, dopo due anni, il suono delle sirene e delle esplosioni che devastano il Paese.

Sua Beatitudine, da due anni ormai molte persone in Ucraina si svegliano quasi quotidianamente al suono delle sirene e delle esplosioni. Altri leggono le notizie con preoccupazione. Il pensiero di molti va ai propri cari che si trovano al fronte o in luoghi molto pericolosi. Dove vanno i suoi pensieri quando si sveglia e quali sono le sue prime preghiere?
La prima preghiera di mattina con cui mi sveglio è la preghiera di ringraziamento. Perché veramente ogni mattina, quando ti svegli vivo, già hai una profonda ragione per ringraziare il Signore, ringraziarlo per il dono della nuova giornata, il dono della vita che devi trasformare nel dono di te stesso a Dio, alla tua Chiesa, al tuo popolo. Ultimamente, il senso di questa preghiera di ringraziamento lo trovo in queste parole del profeta Isaia: «Mentre tu ancora parli, risponderò: Eccomi a te» (cfr. Is 58, 9). È veramente qualcosa che mi colpisce e che dà il senso alle altre preghiere perché è una parola di speranza: dice che il Signore è più pronto a dare che noi, a chiedere. Ovviamente, chiediamo al Signore la pace per la nostra gente, chiediamo che questa guerra finisca il prima possibile, chiediamo al Signore che ci protegga dalla sofferenza, dalla morte. Ma prima di cominciare questa preghiera con le nostre richieste, è importante essere consapevoli che il Signore è più pronto a dare che noi a chiedere. Questo ci dà la speranza.

La guerra porta morte, sofferenza, provoca odio e crea gravi problemi sociali. In che modo la Chiesa cerca di contrastare tutto questo?
Devo dire che in questi due anni dell’invasione su vasta scala – ma in realtà sono dieci anni di guerra – la nostra Chiesa ha sviluppato un certo tipo di pastorale che posso chiamare pastorale del lutto perché dobbiamo accompagnare la gente che piange, la gente che soffre, la gente che vive nel lutto per la perdita dei familiari, della casa, del suo mondo. È una sfida perché è molto facile essere pastori di gente felice. Forse oggi la cultura occidentale ha bisogno per così dire della “pastorale del piacere”, una “pastorale della comodità”, una pastorale del mondo del consumo. Il Santo Padre spesso dice che questa pastorale vuol dire mettere in guardia la persona moderna da questa cultura dello scarto che cerca il piacere sempre più intenso con meno responsabilità. Ma nei contesti della guerra abbiamo a che fare con una sfida completamente diversa: viviamo ogni giorno la tragedia della distruzione del nostro Paese, delle nostre città, ogni giorno guardiamo con gli occhi la morte e purtroppo non abbiamo ancora una chiara prospettiva di quando finirà tutto questo. Perciò abbiamo a che fare con una situazione di profondo dolore del nostro popolo e spesso ci sentiamo impotenti davanti a tutto questo. Cosa possiamo fare? Talvolta si dà la precedenza all’essere presenti, piuttosto che al fare qualcosa: essere presenti accanto alle persone che piangono cercando di far vedere che il Signore è con noi. Trovare delle parole appropriate alla madre che è in lutto per la morte di suo figlio, trovare le parole per avvicinarsi ad un giovane che ha perso le gambe e non sa come vivere o a un bambino che con i propri occhi ha visto la morte di sua madre. Cosa puoi dire a questo povero bambino che non sa come affrontare non solo le relazioni con altre persone, ma anche con se stesso? Questa pastorale del lutto è una sfida, ma è una pastorale anche della speranza, perché vediamo che la fede cristiana ci chiama a portare la speranza della risurrezione in mezzo al lutto delle persone. Questo è il contesto della nostra vita, della vita della Chiesa e dell’annuncio del Vangelo in questa grande tragedia della guerra in Ucraina.

Volevo chiederle anche da dove traete la forza – lei personalmente, i sacerdoti, le persone consacrate – per accompagnare la gente in questo periodo buio?
Devo confessare sinceramente che è un mistero. Non lo sappiamo. Soltanto quando rivolgi il tuo sguardo a questo tempo di guerra già trascorso – due anni – allora puoi interpretare e capire da dove hai preso la tua forza. Forse, è la stessa esperienza della presenza di Dio che ha vissuto Mosè sul Sinai quando il Signore gli ha detto: non puoi vedere il mio volto e rimanere vivo (cfr. Es 33, 20). Possiamo riconoscere questa presenza che ci ispira, che ricarica le nostre forze soltanto guardando le spalle del Signore che passa, che è passato attraverso il tuo dolore. Devo dire che cі sono alcuni momenti in cui ti senti ricaricato: ovviamente è la preghiera e i sacramenti della Chiesa. Possiamo riaffermare oggi questa famosa frase dei cristiani dei primi secoli: Sine dominico non possumus, cioè senza la celebrazione dell’Eucarestia non possiamo né vivere né operare. Poi anche la confessione frequente: c’è una grande riscoperta del sacramento della riconciliazione che risana le nostre ferite spirituali, ma anche quelle della psiche umana. Perché viviamo ogni giorno nel pericolo imminente di morte. Ad esempio, non so se fra un’ora sarò ancora in vita: questa è la nostra realtà. Perciò dobbiamo essere sempre pronti a morire e a presentarci davanti al volto del nostro Signore.
Poi c’è anche un terzo momento che tocca la nostra attività: ovviamente, dopo ogni bombardamento, ad ogni attacco missilistico percepiamo lo spavento, riportiamo nuove ferite psicologiche, però è importante trasformare questa energia dello spavento in un’azione. Molte persone hanno riferito che dopo ogni attacco missilistico notano un aumento dell’attività. Questa energia che scoppia dentro di te quando senti il boato delle esplosioni e il tremore della tua casa, va trasformata in un’azione di solidarietà, di servizio: fare del bene ti aiuta a guarire, trasformare il tuo dolore nella solidarietà con chi piange, trasformare il tuo lutto in carità cristiana. Questa trasformazione dello “stare” in “agire”, ma nell’agire positivo, costruttivo, è qualcosa che ci dà speranza. Forse queste tre realtà possono essere percepite come un segreto della nostra resistenza, il segreto della speranza cristiana del popolo ucraino oggi.

Quindi il popolo ucraino continua a sperare anche se ha tutte le ragioni per essere disperato?
Devo dire che noi siamo feriti, ma non disperati. Come dice San Paolo, siamo disprezzati, ma non distrutti (cfr. 2 Cor 4, 9). Ogni giorno noi sperimentiamo la morte del nostro Signore Gesù Cristo nella nostra carne, per vivere la sua risurrezione. Il popolo che crede nella vita eterna, il popolo che crede nel Cristo risorto, trova la speranza. E devo dire che la speranza non è un vano sentimento, un fidarsi ciecamente di ciò che non sai. No, questa non è una speranza cristiana. Il senso della speranza cristiana è la vita del Risorto: noi sicuramente risorgeremo. Questa speranza già la portiamo nel nostro vivere oggi, ma sarà pienamente rivelata solo nella vita futura. Perciò la speranza cristiana è una virtù che coinvolge la volontà, il tuo modo di pensare, la tua ragione e i tuoi sentimenti. Quindi, è la speranza cristiana che ci apre nuove prospettive. In Ucraina spesso possiamo sentire la frase in latino Contra spem spero (spero contro ogni speranza) che è diventata anche il titolo di una poesia della famosa poetessa ucraina Lesja Ukrainka (1871-1913): noi speriamo cristianamente contro una disperazione semplicemente umana. Perciò l’occhio cristiano può vedere in queste condizioni una luce di fede che forse i non credenti non possono percepire.

Il Sinodo dei vescovi greco-cattolici in Ucraina, che si è riunito all’inizio di febbraio, aveva come tema principale la pastorale della famiglia. Quali sono le sfide principali in questo ambito e cosa cercate di fare come Chiesa?
Oggi il piano pastorale della nostra Chiesa, che abbiamo concordato a livello del Sinodo, si può riassumere nella prospettiva di curare le ferite del popolo. Una delle priorità di questa attenzione pastorale è la pastorale della famiglia che vive il lutto. È importante capire come accompagnare la famiglia e abbiamo fatto un’analisi approfondita della situazione della vita della famiglia ucraina. Innanzitutto, abbiamo capito che la maggioranza delle famiglie ucraine purtroppo vivono una situazione di separazione forzata. La maggior parte degli uomini oggi combatte. Questo vuol dire che queste famiglie vivono senza la presenza quotidiana del padre. Poi abbiamo una massiccia emigrazione: si stima che 14 milioni di ucraini sono stati costretti ad abbandonare le loro case. La stragrande maggioranza si è spostata all’interno del Paese, soprattutto dalle regioni orientali verso le parti centrali e occidentali. Poi, quasi 6 milioni di persone hanno lasciato l’Ucraina. Alcuni sono tornati, altri hanno proseguito verso altri Paesi. Vuol dire che queste famiglie sono separate perché gli uomini non possono uscire fuori dall’Ucraina. La stragrande maggioranza, l’80%, dei rifugiati di guerra ucraini in Europa sono donne giovani con i loro bambini. È la grande tragedia della separazione. Le statistiche ufficiali ci dicono che nel 2023, in Ucraina sono stati registrati più di 170 mila matrimoni, il numero più basso della storia del Paese indipendente. In alcuni anni si registravano 600 mila nuovi matrimoni. Ma c’è un’altra statistica che veramente ci ha fatto spaventare: oltre ai pochi matrimoni, ci sono stati anche 120 mila divorzi. Affrontando questa grande sfida, lo Stato ucraino oggi propone il matrimonio registrato in un giorno, cioè le persone possono fare una domanda online e in un giorno sarà registrata la loro unione civile presso il governo. Questo, da una parte, sembra facilitare questa registrazione del matrimonio civile, ma dall’altra parte banalizza lo stesso concetto della famiglia. Se in un giorno si può registrare, vuol dire che il giorno seguente si può divorziare e qualcosa di importante viene preso alla leggera, senza un profondo coinvolgimento e responsabilità. C’è anche un’altra situazione che ci fa riflettere. Prima della guerra, le grandi sfide erano costituite da due tipi di famiglia: le famiglie disfunzionali, cioè quelle che vivevano una crisi, che erano sulla soglia del divorzio e che la Chiesa doveva accompagnare per rafforzare questo legame familiare, e le famiglie degli emigrati, quando la mamma, la donna andava a cercare il lavoro in Italia, in Grecia e in altri Paesi dell’Europa e il marito con i bambini rimaneva a casa. Far tornare la mamma in famiglia è veramente una sfida: come reintegrare queste persone nella società ucraina, nella propria famiglia. Ma adesso abbiamo ben quattro nuove sfide della pastorale della famiglia. Innanzitutto, abbiamo famiglie che hanno perso un parente, le famiglie giovani, per esempio, una giovane moglie che ha perso il marito e non sa spiegare ai suoi bambini quando tornerà suo padre. Queste giovani vedove in Ucraina oggi vengono chiamate “i tulipani neri”. È veramente una tragedia e noi dobbiamo accompagnare queste famiglie. L’altra tragedia è quella delle famiglie di quanti sono stati gravemente feriti in guerra. Oggi secondo le statistiche ufficiali, in Ucraina abbiamo 200 mila persone, ex-militari e civili, gravemente feriti. E la famiglia porta tutto il peso dell’accompagnamento e dell’assistenza sociale e medica del ferito. Spesso queste famiglie sono abbandonate dallo Stato che non riesce ad offrire un’assistenza sociale adeguata. Questi feriti gravi che hanno bisogno di cure mediche specifiche, spesso non hanno neanche cibo sufficiente. Si stima che fra questi 200 mila feriti, 50 mila hanno perso le gambe o le braccia, soprattutto i giovani, e hanno bisogno di una riabilitazione e di cure specifiche. Accompagnare queste persone vuol dire non soltanto curare il corpo, hanno bisogno di una terapia psicologica professionale, ma questa non funziona senza un accompagnamento spirituale. E come accompagnare spiritualmente una giovane donna di 23 anni che ha perso le braccia? È veramente una grande sfida. Poi abbiamo altre famiglie che hanno ricevuto la notizia che un loro parente è disperso sul fronte e di lui non si hanno notizie. Ufficialmente 35 mila persone sono registrate come disperse. Voi non immaginate l’inferno che vivono la madre e il padre che ha non hanno notizie del figlio o la moglie che vive senza notizie del marito! Immaginate una donna di 25 anni con due bambini che dice: “Non so come pregare perché non so se mio marito è vivo o morto. Sono una vedova o no? Come posso organizzare la mia vita?”. Questo diventa una tortura perché, il bambino ogni giorno, ogni mattina chiede: “Quando torna mio papà?”. E quella donna non sa cosa rispondere, non sa dire al proprio bambino se suo padre è vivo o morto. Ogni volta quando si annuncia un nuovo scambio di prigionieri e quando appaiono le persone che prima erano registrate come disperse, queste speranze si ravvivano, ma accanto alla speranza, si ravvivano anche il dolore, la delusione e una profonda sofferenza. Poi abbiamo anche un’altra categoria che sono le famiglie dei prigionieri di guerra ed accompagnarle è una sfida molto difficile. Devo dire che in ogni parrocchia che visito, mi presentano liste senza fine di familiari che sono prigionieri di guerra. Raccolgo continuamente questi nomi, guardo questi volti di giovani e li trasmetto al Santo Padre. Ogni tanto scrivo una lettera con una nuova lista di prigionieri di guerra. Sono profondamente grato al Santo Padre per il suo impegno nella liberazione dei prigionieri di guerra. Di alcuni sappiamo dove si trovano, di altri no. Preghiamo perché un giorno possano essere liberati e tornare a casa. Questo è il quadro della sofferenza della famiglia ucraina oggi, questo è come la guerra ha colpito il cuore della società Ucraina, cioè la famiglia. Un’altra dimensione della vita della società ucraina sono bambini. Assistiamo a un calo drammatico delle nascite in Ucraina. Secondo statistiche dello Stato, nel 2023 in Ucraina sono nati 210 mila bambini. Per l’anno 2024 si prevedono soltanto 180 mila nascite. Un terzo di ciò che normalmente accadeva in Ucraina. Ufficialmente il Governo ucraino afferma che 527 bambini sono stati uccisi e 1224 feriti con vari livelli di gravità. Ovviamente, un grande crimine contro la dignità del bambino sono le deportazioni da parte del governo russo dei bambini ucraini dalle zone occupate in Russia e che quindi sono stati separati dai loro genitori. Le autorità ucraine dichiarano di aver identificato e verificato le informazioni su quasi 20 mila bambini che sono stati deportati in Russia durante la guerra su vasta scala. Il numero totale dei bambini che, secondo le fonti russe, sono stati portati, in modalità diverse, dai territori occupati in Russia è di circa 700 mila. Il governo ucraino afferma che al 24 gennaio 2024 in Ucraina sono stati riportati 388 bambini, cioè un numero relativamente ridotto. Siamo grati che la Corte internazionale stia studiando questo fenomeno e già sta definendo tutto questo come un crimine contro l’umanità. Ma bisogna pregare per questi bambini perché loro sono tra i più deboli e più vulnerabili e durante la guerra chi soffre di più, chi riceve le ferite più devastanti sono i più deboli. Questo fenomeno dei bambini di guerra in Ucraina è un altro disastro umanitario che noi oggi, come Chiesa, dobbiamo affrontare, dobbiamo dare voce a questi bambini silenziati, aiutare i genitori a ritrovare i loro bambini e anche accompagnarli. Ho incontrato alcuni bambini che erano stati deportati dai russi e poi attraverso vari meccanismi internazionali, compresa la missione del cardinale Matteo Zuppi, erano riportati alle loro famiglie. Questi bambini hanno davvero bisogno di cure specifiche, meritano grande attenzione, un accompagnamento pastorale molto particolare, perché nella loro piccola età hanno sperimentato tutta la crudeltà umana possibile che noi adulti neanche possiamo immaginare e alcuni di loro sono stati sfruttati sessualmente. Questo è un grido di dolore dell’Ucraina che il mondo intero deve essere capace di percepire e ascoltare.

Qual è il suo messaggio ai cattolici di tutto il mondo a due anni dall’inizio dell’invasione su larga scala?
Facciamo di tutto per far finire questa guerra insensata! Dobbiamo cercare tutti i mezzi per frenare l’aggressore, perché la guerra sempre porta con sé la morte, la tragedia, la distruzione della persona umana e dell’intera società. Vorrei che oggi i nostri fratelli e sorelle in Europa e in tutto il mondo capiscano che la guerra in Ucraina non è la “guerra ucraina”, cioè non è semplicemente un fenomeno che si può chiudere dentro i confini del nostro Paese che soffre: è una realtà che sta invadendo il mondo, è come un vulcano scoppiato nel territorio ucraino, ma il suo fumo e la lava vanno oltre. Questa guerra prima o poi toccherà tutti, non soltanto il soldato che sta sul fronte e la sua famiglia, ma anche tutti quelli che vivono vicino o lontano dai confini dell’Ucraina, la società europea e anche quella mondiale. Perciò chiediamo solidarietà. Non ci dimenticate perché se saremo dimenticati e abbandonati, questa scossa di terremoto, che oggi viviamo in Ucraina, scuoterà tutto il mondo. Noi abbiamo la speranza che la solidarietà veramente salva la vita, la solidarietà ci può aiutare a trovare le soluzioni che forse oggi ancora non abbiamo individuato. Non dimenticate l’Ucraina, non ci abbandonate nel nostro lutto e nel nostro dolore.