Già si contano, al 16 febbraio 2024, 20 suicidi in carcere, un’emergenza che sembra non finire mai. Nel 2022 si è raggiunto addirittura il numero di 84 detenuti che si sono tolti la vita, ma è stato alto anche nel 2023: 69 persone. E dietro questi numeri, vite spezzate non solo dagli errori commessi in passato, ma anche dalla mancanza di speranza di poter riprendere in mano la vita e cambiare il finale. Sovraffollamento, solitudine, mancanza di prospettive dopo la fine della pena: tante le cause che si possono individuare alla base di un disperato gesto estremo, ma è un dramma che non può essere messo sotto silenzio né può lasciare tranquille le coscienze. Ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane.
Don Raffaele, perché continuano a essere tanti i suicidi in carcere?
I suicidi avvengono, per quanto è possibile constatare attraverso le statistiche, soprattutto nei grandi istituti: siccome non sono a misura d’uomo, molti detenuti, che vivono situazioni difficili anche sul fronte della salute, non vengono raggiunti né aiutati, proprio a causa del numero elevato dei ristretti. Solitamente, nei piccoli istituti, invece, dove c’è un dialogo continuo con il detenuto, nel momento in cui si sente più giù moralmente, spiritualmente, fisicamente, il ristretto può essere raggiunto più facilmente dal personale che lavora in quel carcere.
Una buona parte dei detenuti che compiono il gesto estremo del suicidio quindi si trova in strutture grandi e non è raggiunta da tutti quei servizi che sono presenti nel carcere. Purtroppo, sono problemi annosi, lamentele di sempre: c’è mancanza di personale e non solo della Polizia penitenziaria: mancano anche educatori e psicologi, figure che tante volte si rapportano ai detenuti che vivono le loro fragilità proprio per sostenerli.
Un altro elemento che incide sui suicidi è che spesso i detenuti si sentono persone fallite: quando escono non trovano uno sbocco lavorativo, non ci sono familiari ad aspettarli, non hanno una casa dove andare, vivono questo dramma consapevolmente e, nella disperazione, scelgono quella che sembra a loro la strada più semplice e al tempo stesso la più drammatica: il suicidio.
Come rispondere a questa emergenza?
Le risposte potrebbero essere molteplici, ma soprattutto c’è bisogno dell’impegno da parte dello Stato, della comunità civile. Il mondo del volontariato, i cappellani, la Chiesa locale possono fare molto, ma nello stesso momento non riescono a raggiungere tutti o, almeno, tutte le situazioni. Io, a gennaio, sono stato sia a Lecce sia a Taranto e ho visto due carceri grandi, enormi ma fuori, attraverso la diocesi e i cappellani, ci sono dei luoghi di riferimento dove il detenuto che esce può essere accolto, almeno per una prima emergenza. Infatti, capita spesso che il detenuto esca dal carcere di sera e non sa dove andare. Molte volte se non ci fossero i cappellani e i volontari per queste emergenze queste persone vivrebbero un momento di disperazione quando escono fuori. Io sono sempre in contatto con i cappellani e giro continuamente per le carceri: il mio è un continuo pellegrinaggio in questi luoghi di solitudine e di dolore. Vado anche per donare ai cappellani l’incoraggiamento per il loro servizio, poi incontro il personale, i ristretti, per portare sempre una parola di speranza. È anche un modo di vedere le difficoltà e di capire soprattutto quali potrebbero essere le migliori soluzioni.
La mancanza di prospettive dopo il carcere toglie alle persone più fragili la voglia di vivere, ma anche all’interno dei penitenziari si vive solitudine?
Sappiamo bene che il carcere è il luogo della solitudine, chi è più forte, chi lavora all’interno del carcere, chi svolge un’attività dà un senso al tempo trascorso dentro, ma sappiamo bene che il lavoro non è per tutti, che le attività di formazione non sono per tutti, perché i numeri disponibili sono molto limitati per la scuola, i corsi di formazione, le attività lavorative. Molte volte i detenuti fanno tre o quattro mesi di lavoro, poi c’è un turnover per dare anche ad altri la possibilità di potere accedere al lavoro. Questi sono i limiti di un carcere, soprattutto quando è sovraffollato ed enorme, pensiamo a Napoli al carcere di Poggioreale o anche di Secondigliano, al Pagliarelli a Palermo, alle carceri di Lecce e Taranto, a San Vittore e Opera, sono veramente tutti molto grandi e se non ci sono attività il rischio di farsi prendere dalla disperazione all’interno di questi istituti c’è.
Ci vorrebbe una rete virtuosa tra quello che fa la Chiesa, la società civile e quello che può offrire lo stesso carcere?
Certamente, creare una rete virtuosa per rispondere insieme all’emergenza potrebbe aiutare molto, ma molte volte vedo che ognuno lavora per sé, ognuno cerca di privilegiare la propria azione senza condividere con altri un percorso, ma in questo settore c’è bisogno veramente di una rete, di un rapportarsi gli uni con gli altri, creare rete per risolvere i problemi dei detenuti. C’è bisogno che tutte le organizzazioni che lavorano fuori o dentro il carcere siano messe in rete e collaborino ognuno dando il proprio apporto.
Se ogni organizzazione – chi, per esempio, fa accoglienza, chi offre opportunità di lavoro, chi fa corsi professionali, un cappellano, un’organizzazione di volontariato, un’associazione, una cooperativa – si mette in rete con l’altro si può veramente e più facilmente aiutare un detenuto.
Molte volte noi ci sentiamo un po’ con le mani legate perché non sappiamo a chi rivolgerci perché queste esperienze non vengono comunicate o non vengono conosciute. Anche per questo io giro tra gli istituti penitenziari, incontro i cappellani, spingo per la formazione dei volontari, c’è tutto questo lavoro pastorale, attraverso il quale cerchiamo di seminare e poi speriamo di raccogliere a favore dei più deboli.