Sull’area occupata dal Duomo e dalla sua piazza, dall’epoca romana fino a quella viscontea, erano sorte ed esistevano, tra i vari edifici sacri cristiani, queste più significative presenze: la basilica Vetus (III sec. d.C. ?), citata da S. Ambrogio, alla quale apparteneva la vasca battesimale di S. Stefano alla Fonti, ritrovata sotto la sacrestia settentrionale del Duomo; la prima cattedrale milanese, dedicata poi a S. Tecla, risalente al terzo-quarto decennio del sec. IV e chiamata basilica nova o major e poi divenuta la basilica aestiva; il battistero ottagonale di S. Giovanni alle Fonti, a ridosso dell’abside di S. Tecla, costruito da S. Ambrogio; la seconda cattedrale milanese, dedicata a S. Maria Maggiore, nella zona ora occupata dalla navata centrale del Duomo, consacrata nell’836, divenuta poi la basilica hjemalis.
E’ in questo suolo, da più di mille anni consacrato al culto cristiano, che dal 1386 il Duomo affonda le proprie radici storiche, spirituali e architettoniche. La nuova cattedrale venne avviata, per iniziativa dell’arcivescovo Antonio da Saluzzo e con il consenso del signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, secondo i criteri costruttivi del gotico padano in cotto, ma su un progetto planimetrico grandioso, quale è giunto a noi. A questa fase iniziale risalgono buona parte della sacrestia settentrionale, del muro semiottagonale dell’abside e dell’impianto murario della sacrestia meridionale.
Fu solo nella seconda metà dell’anno successivo che il Visconti determinò il nuovo assetto stilistico-costruttivo del Duomo, assegnandogli quella specificità e unicità che lo avrebbe portato ad essere lo status symbol della propria Signoria, divenuta ormai una realtà politica, economica e culturale di grande rilievo e in espansione sul territorio della penisola, tanto da essere elevata a Ducato nel 1395 dall’imperatore Arrigo VII. Questa svolta decisiva derivò dal voler imprimere al Duomo un carattere affatto nuovo nel panorama del gotico italiano, degno di rappresentare la potenza della casata viscontea, ormai in grado di competere con molti dei regni e dei principati esistenti nelle terre franco-germaniche.
Per ottenere questo risultato, Gian Galeazzo il 16 ottobre 1387 costituì la Veneranda Fabbrica del Duomo, assegnandole un regolamento-statuto che le consentisse di provvedere alla raccolta delle ingenti risorse umane e finanziarie richieste dalla progettazione e dall’esecuzione delle opere strutturali, artistiche e decorative della nuova cattedrale. L’organigramma del governo della Fabbrica fu all’origine altamente rappresentativo delle magistrature e del popolo milanese (per molti anni composto da circa 345 persone, tra le quali 300 elette dai patres familias milanesi, 50 per ognuna delle sei Porte); così come le capacità professionali guidarono la scelta dei responsabili tecnici e amministrativi.
Il salto di qualità stilistico fatto compiere dal Visconti al Duomo si ispirò al maturo gotico internazionale stupendamente fiorito, in particolare lungo la valle del Reno, si pensi a Colonia e a Strasburgo. La Fabbrica con i propri ingegneri e architetti, tra i quali significativa fu la presenza dei Maestri Campionesi, dovette riprogettare la cattedrale secondo gli stilemi di quel gotico, ma conservando il già costruito e la disposizione planimetrica prevista e attuata nella sua parte più determinante, quella absidale. Il gotico transalpino, però, fu riproposto secondo una trascrizione connotata da un forte carattere lombardo, quale derivava alle nostre maestranze dalla lunga e feconda esperienza costruttiva romanica.
Da ultimo, poiché il gotico importato non consentiva sia per l’altezza vertiginosa delle sue strutture sia per il ricco arredo scultoreo l’uso del cotto, ma richiedeva l’impiego di un materiale lapideo, del quale era del tutto privo il territorio milanese, il Visconti mise a disposizione della Fabbrica una cava di marmo assai prezioso e idoneo a raffinata modellazione: la vena marmorea bianco-rosata che si trova nella bassa Valdossola, presso l’abitato di Candoglia. Alla Fabbrica l’onere dell’escavazione e del trasporto a Milano per via d’acqua, lungo il Toce, il lago Maggiore, il Ticino, il Ticinello e il Naviglio Grande, fino alla darsena di porta Genova e, dalla seconda metà del Quattrocento grazie alla Conca di Viarenna, lungo il Naviglio interno fino al laghetto di S. Stefano in Brolo, ove si trovava la Cassina, ovvero il cantiere nel quale, tra altre attività, veniva lavorato il marmo di Candoglia.
Il Duomo non è il frutto di un unico progettista, ma di una équipe cui parteciparono architetti, ingegneri, scultori, pittori e capimastri. Negli anni 1386-1400, spiccano i nomi di Simone da Orsenigo, Andrea e Filippino degli Organi da Modena, Zeno, Marco e Giacomo da Campione, Giovannino de’ Grassi, Paolino da Montorfano, Bernardo da Venezia e quelli di alcuni consulenti stranieri che, talora senza grande fortuna, il duca per un decennio convocò al cantiere: i tedeschi Anichino de Alemania, Ulrico da Füssingen e Enrico III Parler “il Gamodia” e i francesi Nicola de’ Bonaventis e Giovanni Mignot.
Non deve stupire la presenza di così qualificata collaborazione europea: essa è solamente la punta emergente di un singolare fenomeno dovuto alla mancanza nel milanese di sufficiente mano d’opera abile nella lavorazione del marmo e nella costruzione di strutture murarie lapidee, di così grande impegno e inconsueta proporzione. Questa situazione indusse la Fabbrica del Duomo a farsi importatrice di artefici specializzati dai cantieri di cattedrali europee in avanzato stadio di costruzione. Era, quello delle cattedrali, un efficiente “mercato comune europeo” di mano d’opera, ove le maestranze circolavano liberamente, spostandosi da una cattedrale ad un’altra sempre, però, nell’àmbito di un omogeneo bacino culturale. Ma non fu così per il Duomo: dal 1387 e per una quarantina d’anni, il suo cantiere richiamò centinaia e centinaia di scultori e scalpellini, carpentieri e fabbri da tutta l’Europa continentale, con esclusione della penisola iberica. Dai Pirenei ai Carpazi tutte queste maestranze convennero a Milano per unirsi alle migliaia di architetti, ingegneri e tecnici, capimastri, muratori, carpentieri e manovali, fabbri e falegnami, scultori (compresi i Campionesi e gli eredi della bottega del pisano Giovanni di Balduccio) e lapicidi nostrani, tanto che il cantiere del Duomo divenne l’obbligato crocevia tra culture, esperienze, sensibilità, linguaggi diversi e l’operoso e vivace crogiolo nel quale ebbe a forgiarsi e ad esprimersi il singolare gotico della cattedrale milanese. Milano visse allora la sua stagione europea più esaltante e fu testimone dell’unica migrazione europea di mano d’opera dal Nord verso il Sud.
Ricca e varia è la scultura gotica dello scorcio del sec. XIV. Ai locali Jacobello delle Masegne, Matteo Raverti, Paolino da Montorfano, Jacopino da Tradate, Giovannino de’ Grassi, Nicolò da Venezia e Maffiolo da Cremona si affiancarono artisti renani e boemi e, in minor misura, borgognoni; tra la produzione in gran parte di incerta paternità, ma sempre di alta qualità, emergono le statue e i giganti dei renani Hans Fernach, Annex Marchestem e Pietro Mönich.
Aquesta vitalità del cantiere, facevano riscontro la capacità gestionale della grande impresa da parte della Fabbrica e l’appassionato interessamento dei milanesi, anche del popolo più minuto e semplice, che vedevano nella grandiosa iniziativa la celebrazione visiva della loro fede e la manifestazione esaltante dell’orgoglio imprenditoriale della cittadinanza e del contado. A questo proposito, si deve sottolineare che fu sempre e solamente la popolazione – mai i duchi e il potere civile e tanto meno i vescovi – a sostenere dall’inizio fino ad oggi il grande sforzo economico per la costruzione, il completamento e ora per la conservazione della cattedrale-monumento.