«Dobbiamo fermarci, metterci di fronte a Dio e lasciare che la coscienza impari ancora a distinguere tra il bene e il male. Occorre invocare, nella preghiera, lo spazio per la pace che ora non si vede». L’Arcivescovo, che fa il suo ingresso al Memoriale della Shoah per dialogare con il rabbino capo di Milano, rav Alfonso Arbib, non nasconde «la situazione drammatica che stiamo vivendo», parlando, appena entrato, davanti all’evocativo muro di pietra su cui è incisa, a caratteri cubitali, una sola grande parola, “indifferenza”. Quell’indifferenza che ieri come oggi uccide, per cui «ci si volta dall’altra parte», non ci si interessa del destino degli altri e che, appunto, il Memoriale, con il suo carico di storia viva combatte, sorgendo presso “Binario 21” della Stazione Centrale da cui vennero deportati la grande maggioranza di ebrei milanesi con i convogli del 6 dicembre 1943 e del 30 gennaio 1944 e alcuni prigionieri politici. Dei 774 ebrei partiti, destinazione Auschwitz, tornarono in 27, di cui oggi rimane solo la senatrice a vita Liliana Segre.
L’incontro
Nei giorni in cui tutto parla della shoah – con la Giornata del 27 gennaio che si celebra a livello internazionale nella data in cui l’Armata rossa varcò i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e il 30 dello stesso mese che ricorda, a livello milanese, la deportazione -, ma anche alla vigilia del 17 gennaio, Giornata annuale dedicata dalla Cei al dialogo ebraico-cristiano, il vescovo Mario e rav Arbib si ritrovano nel moderno Auditorium del Memoriale per approfondire la figura di Giacobbe a partire dal brano della Genesi al capitolo 28. Davanti a loro, il presidente del Memoriale, Roberto Jarach, il vicario episcopale monsignor Luca Bressan, il responsabile del Servizio per l’Ecumenismo e il Dialogo, il diacono Roberto Pagani, rappresentanti del Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano con la presidente, la pastora valdese Daniela Di Carlo, sacerdoti e laici impegnati nel cammino ecumenico e interreligioso, membri della Comunità di Sant’Egidio. Moderata da Milena Santerini, docente, già Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo e vicepresidente del Memoriale, si avvia la discussione intorno alla figura di Giacobbe che, per il grande rabbino Jonathan Sacks, è il patriarca per eccellenza, proprio perché, nel brano della Genesi, sta fuggendo, è solo, non ha nulla, ma nella sua situazione terribile riesce a vedere gli angeli su una scala piantata per terra che arriva fino al cielo e comprende che la scala è il modo per arrivare a Dio».
Il tempo delle parole indicibili
«Viene il tempo delle parole indicibili, le parole che non sanno comunicare, suoni che servono per aggredire, gemiti che non sanno raccontare, grida inascoltabili che risuonano là dove l’uomo infligge all’uomo sofferenze inenarrabili e prova gioia a farlo», dice l’Arcivescovo che aggiunge. «È il tempo delle parole che vorrebbero risvegliare il pensiero, ma il chiasso insopportabile delle bombe, la banalità esasperante delle chiacchiere, l’angoscia troppo profonda, non lasciano possibilità di pensare. Le parole che vorrebbero essere dialogo, confronto, ricerca condivisa di un passo da compiere, occasione per guardarsi in faccia e invece il dialogo è impossibile e non si vedono volti d’uomo, ma solo volti di minaccia, maschere d’odio, nella terra che è un deserto inospitale».
Eppure «la notte improbabile diventa il tempo di Dio, il luogo inospitale si rivela la casa di Dio» (leggi qui l’intervento dell’Arcivescovo).
Agli uomini che «sradicano, invece di costruire e che distruggono», il Signore ha qualche cosa da dire, «nella notte in cui il sogno inatteso rivela perché sia possibile ancora vivere e sperare. Ecco, solo Dio può scuotere l’ottusità arrabbiata dei popoli e degli uomini, può mostrare che la strada non porta da nessuna parte se non c’è una scala che si innalza e che consente agli angeli di portare parole di Dio agli abitanti della terra», scandisce monsignor Delpini, dando voce a quella che definisce una «sua percezione».
«Viviamo nel buio di una notte in cui ogni terra sembra straniera e ogni nome di paese suona come un nome sbagliato. Possiamo solo invocare che ci sia un messaggio da parte di Dio per riconoscere che proprio questo luogo è casa di Dio».
La benedizione di Giacobbe e la missione di tutti
Da qui il richiamo alla benedizione di Giacobbe che, nel buio della notte, nella solitudine, ha continuato a credere nel Signore. La sua benedizione «non è un privilegio, ma una missione», quella che può essere di tutti anche oggi: «essere benedizione per tutte le famiglie della terra».
«Noi, forse, in un momento di smarrimento come quello che stiamo attraversando, avremo la grazia di un sogno, di una luce che indichi la via, di un nome nuovo per chiamare la terra che abitiamo, di una parola nuova. Ogni parola, in questo tempo, può essere un’arma che ferisce, una provocazione che esaspera, dunque preferisco – conclude il vescovo Mario – il silenzio e la preghiera, l’attesa che da qualche parte della terra appaia una scala che consenta di accedere alla luce di Dio».
Giacobbe «emblema del popolo ebraico»
Giacobbe, spiega il rabbino Arbib che è anche presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, «è l’emblema del popolo ebraico che, in condizione di buio, di incertezza, di espulsioni continue, senza sapere quanto sarebbe potuto rimanere in un luogo, proprio lì ha costruito una vita ebraica, con scuole e sinagoghe, con la grande capacità di trovare sempre una luce. E così è accaduto dal medioevo fin dopo la shoah, anche con la fondazione dello Stato di Israele». Una vicenda, questa, per il Rabbino capo «non scontata». Il pensiero va al dramma del 7 ottobre «sconvolgente e di fronte al quale anche io non sono la stessa persona di prima».
L’antisemitismo che rinasce
«Stiamo vivendo un momento assolutamente difficile, abbiamo assistito a un pogrom all’interno di Israele, al più grande massacro dopo la shoah, a torture e alla gioia di procurare sofferenze e questo mi ha particolarmente sconvolto. La reazione quale è stata? All’esterno delle comunità ebraiche assistiamo a un esplosione di antisemitismo, tanto che per il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, sono triplicati gli episodi di antisemitismo. Ma ciò che più preoccupa e colpisce è che a essere antisemiti sono soprattutto i giovani. Un antisemitismo, talvolta, in buonafede che pensa di avere un’opinione politica, di difendere gli oppressi, il bene contro il male. E il male siamo noi ebrei e questo mi fa sinceramente molta paura. Mi sarei aspettato una maggior empatia: mi preoccupa che il 7 ottobre non abbia rappresentato una cesura per tutti, quando invece riguarda tutti. Anche le persone per bene hanno reagito spesso con una certa indifferenza e su questo bisogna riflettere. Credevamo che fosse superata la contrapposizione tra il Dio ebraico della vendetta e il Dio dell’amore, ma non è così. A Gaza c’è una tragedia, ma non una vendetta, è incendiario usare la parola vendetta».
Che cosa possono fare, allora, gli esponenti delle fedi? Chiara la risposta: «esprimere empatia e sentimenti. Noi ci siamo sentiti soli, perché anche nella solidarietà vi è stata una certa freddezza».
Un secondo contributo che possono dare le religioni è diffondere la consapevolezza che, come osservava ancora il rabbino Sacks, l’antisemitismo è un virus e che, come tutti i virus, muta. «L’antigiudaismo del Medioevo non è quello dell’Ottocento o del Novecento. Ora la mutazione ha come punto centrale Israele e, allora, bisogna comprendere questa mutazione e far capire ai giovani come, dietro una posizione politica, si possa celare questo virus mutato».
La responsabilità educativa
Evidente, in un tale contesto, la responsabilità educativa che entrambi i relatori sottolineano in un secondo giro di dialogo.
«Diciamo “mai più la guerra” e la generazione dopo fa la guerra: penso che la nostra visione della storia e delle responsabilità educative non debba essere ispirata a una tecnica o un volontarismo, non è un meccanismo, ha le sue sconfitte. Siamo chiamati ad avere fiducia perché Dio è alleato del bene e noi confidiamo in questa alleanza. Questa, che traggo dall’incontro di oggi, è la responsabilità della speranza», riflette l’Arcivescovo.
Parole cui fa eco rav Arbib. «Nel brano della Genesi ci sono due immagini chiave, la scala ovviamente che ci dice che Dio è presente nei momenti oscuri, ma anche l’immagine della scala in sé che indica ciò che deve essere il nostro atteggiamento. Nel nostro mondo le soluzioni magiche non esistono perché non c’è niente di semplice. La scala rappresenta che si sale un gradino alla volta, che al cielo si sale senza fare salti. La seconda immagine è quella della pietra che Giacobbe usa come guanciale, il cui termine ebraico unisce i concetti di padre e figlio. Noi abbiamo un’urgenza e un dovere educativo, la nostra vita è basata sul rapporto padre e figlio, maestri e allievi, ma ho l’impressione che, a volte, abdichiamo a questo dovere di comunicare ciò che abbiamo imparato. Nell’epoca dei social tutti sanno tutto, tutti possono parlare di tutto, ma è nostro dovere dire che none cosi. Dobbiamo metterci in dialogo con le generazioni successive, non con facebook attraverso una risposta di 30 secondi a un pensiero elaborato per 20. Questo vale in maniera moto forte quando parliamo di antisemitismo che è una terribile semplificazione».