Milano è stata scelta come sede del convegno internazionale sulle «Periferie delle città europee» che vedrà l’intervento di un ricco parterre di esperti. Alla tavola rotonda di venerdì pomeriggio interverrà anche monsignor Carlo Azzimonti, da un anno vicario episcopale per la città.
Che idea si è fatto finora di Milano?
Ho iniziato con un primo sguardo. Ci vuole tempo per entrare nelle situazioni, però la prima impressione, seppure superficiale, è di una grande ricchezza, tante possibilità di sviluppo integrale. Milano è come una tela segnata da strappi e lacerazioni, bisogna ricucire con saggezza, con il filo della solidarietà, dell’empatia, della prossimità. E la Chiesa c’è. Siamo pronti, attraverso le parrocchie e le comunità pastorali.
Lei interverrà al convegno sulle periferie. Quale sarà il suo contributo?
Io porterò una testimonianza di ciò che mi pare di intuire delle periferie di Milano. Al di là delle difficoltà materiali, oggi ci sono tanti problemi e sono quelli di sempre: la casa e il lavoro. Poi ci sono altre tematiche che non riguardano solo le periferie. Penso all’impoverimento e degrado dei legami sociali. La necessità è quella di stabilire alleanze positive tra tutte le istituzioni: non profit, Terzo settore, Chiesa per cercare di dare po’ di fiducia e speranza agli abitanti antichi e nuovi. Nelle periferie ci sono gli antichi milanesi, magari anche loro impoveriti, e ci sono i nuovi milanesi, immigrati dai vari Paesi del mondo (un tema ripreso anche dalla Chiesa dalle genti), che a volte vivono in un contesto di abbandono. Penso a certi palazzi e vie a rischio delle nostre periferie, tra degrado abitativo e occupazioni abusive gestite a volte dal racket. La fatica del vivere crea situazioni difficili dal punto di vista della convivenza sociale.
Girando i diversi Municipi della città, oltre ai problemi, ha trovato anche risorse?
C’è un tessuto di associazioni, cooperative, gruppi che sono risorse. La mia sensazione però è che tutti si muovano in modo autonomo. Diventa difficile fare rete, vedersi sul territorio, ognuno con la sua attività e chiedersi: «Che cosa possiamo fare insieme? Come possiamo moltiplicare le energie e le risorse?». Questo secondo me è l’aspetto più positivo che può fare da volano per ridare fiducia e speranza. Poi c’è il compito delle istituzioni: Comune, Regione, Aler.
Oggi la Chiesa e la società civile riescono a collaborare più che in passato?
Assolutamente sì. Mi sembra che oggi il clima sia favorevole. Girando ho percepito segnali positivi, una disponibilità, una simpatia e una volontà in tal senso. Poi però bisogna essere concreti, misurarsi sulle questioni, sulle cose da fare… Si può e si deve lavorare insieme per cercare le risposte ai tanti bisogni. C’è uno scarto tra la città delle eccellenze, dei primati, e quella delle periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali, come ci ricorda il Papa.
In questi ultimi mesi, complici anche le elezioni europee, pare che il clima si sia molto appesantito: c’è chi vuole distruggere più che costruire, anche a livello politico…
L’identità è fondamentale per un gruppo, una città, una nazione. Ma deve essere nella logica di un’inclusione sempre più accentuata e non dell’esclusione, perché le gerarchie – “prima”, “prima” – creano lotte e guerre tra poveri. Questo è assurdo, non è evangelico. Così pure la strumentalizzazione della fede, che non dovrebbe mai esserci. È accaduto tante volte nella storia e lo sappiamo bene, però la storia ci dovrebbe consegnare un altro sguardo. Certe immagini e certe memorie storiche sono molto vive, si invocava Dio da una parte. Questo è stato invece un fenomeno di negazione della verità della fede cristiana. Anche l’idolatria c’è sempre stata, ma l’idolatria non è la fede ed è sempre un male per il credente, una falsificazione della fede. E non costruisce.