Il 2 maggio dell’anno 1519, in un’appartata dimora sulla riva della Loira, si spegneva Leonardo da Vinci, una delle menti più fertili e vivaci che l’umanità possa vantare, in ogni epoca e latitudine. Gli anniversari, si sa, specialmente quelli “epocali” come questo quinto centenario, corrono sempre il rischio della retorica celebrativa, che può perfino diventare stucchevole. Ma in questo caso nessun superlativo, nessuna lode sembra fuori luogo per un uomo che ha saputo segnare il suo tempo, e che forse è ancor più ammirato ai nostri giorni, per le sue intuizioni profetiche, per i suoi studi pionieristici, per il suo approccio già moderno a tante questioni e aspetti della nostra stessa vita.
Per questo lo chiamiamo “genio”. Non perché egli abbia trovato risposte a ogni domanda, non perché abbia dato soluzione a tutti i problemi, non perché sia stato sempre infallibile (che anzi di “errori” ne ha commessi diversi nella sua carriera), ma perché non ha mai cessato di cercare e di interrogarsi di fronte alle meraviglie dell’universo: quello dentro e quello fuori di noi. Nello stupore, infine, della creatura che riconosce la grandezza del Creatore.
Leonardo nasce in Toscana e si forma a Firenze. Ma è a Milano, nel corso di un trentennale soggiorno – seppur non continuo – a cavallo tra Quattro e Cinquecento, che egli sviluppa la maggior parte dei suoi progetti, ponendo mano a straordinari capolavori artistici. Come per altri illustri “forestieri”, prima e dopo di lui, proprio il contesto ambrosiano diventa per il maestro toscano il terreno ideale dove coltivare i suoi sogni, riuscendo ad esaltare le proprie capacità e virtù. Così che la città, come la Lombardia tutta, pare ancora intrisa della sua presenza, quando non addirittura delle sue opere, realizzate direttamente dal maestro o anche soltanto ispirate ai suoi studi e alle sue ricerche.
L’Ambrosiana, come è stato scritto, è «il primo sacro focolare in cui è accesa la fiamma del culto vinciano». Nella Biblioteca fondata dal cardinale Federico Borromeo, infatti, sono conservati oltre un migliaio di fogli di Leonardo: appunti, disegni, schizzi, analisi, pensieri raccolti in quello che viene chiamato “Codice atlantico”, una sorta di “archivio” della mente stessa del genio. Ma la Pinacoteca custodisce anche un suo splendido dipinto su tavola, quel Musico che costituisce l’unico ritratto maschile giunto fino a noi del maestro, la cui intensità psicologica già anticipa capolavori quali la Dama con l’ermellino e la Gioconda.
Posto sotto il patronato e la “sferza” di Ludovico il Moro, Leonardo era di casa in quel castello sforzesco dove è ormai imminente la riapertura al pubblico della restaurata “Sala delle asse”, da lui decorata. Uno spazio “magico” e raccolto, dove i rami degli alberi s’intrecciano formando un pergolato ordinato, che sovrasta invece un aspro paesaggio roccioso, ornato di imprese del duca e di ermetiche allegorie, forse ispirate a quella Valle di Tempe celebrata dagli antichi poeti greci e ripresa dagli umanisti rinascimentali come uno dei luoghi favoriti di Apollo e delle Muse.
E anche alzando lo sguardo alla Madonnina il pensiero può andare al nostro maestro. Non perché sia stato lui l’ideatore della guglia maggiore o della celebre immagine “tutta d’oro” (che sono del XVIII secolo, in verità), ma perché anche nel grandioso cantiere del Duomo Leonardo pose testa e cuore, con una serie di proposte e di progetti dei quali, seppur non realizzati, rimane traccia nelle carte del cosiddetto “Codice Trivulziano”. Pagine dove, fra le altre cose, egli si dichiara umilmente quale «omo sanza lettere», riconoscendo i limiti della propria formazione.
Ma è nel Cenacolo del refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, «vertice dell’arte di tutti i tempi» come fu definito, che i nostri occhi possono davvero cogliere l’essenza del “genio” di Leonardo. Questo dipinto ammalorato ed evanescente, soprattutto per colpa del suo stesso artefice, che mette in scena il drammatico annuncio di Gesù dell’imminente tradimento con le diverse reazioni dei discepoli (sorpresa, paura, rabbia, sconcerto, incredulità…), diventando così il manifesto stesso di quella poetica vinciana della rappresentazione dei “moti dell’animo”.
Ma che, allo stesso tempo, appare molto di più e di più profondo, con la raffigurazione inaudita ed eccezionale dell’istituzione stessa dell’eucaristia, con il Cristo che offre se stesso, il proprio corpo e il proprio sangue, in quel duplice e differente gesto delle mani: prendendo e benedicendo con l’una, offrendo a tutti con l’altra. Cuore della nostra fede, mistero infinito di amore e di salvezza che solo un artista geniale e straordinariamente innovativo, pur nel sacro rispetto della tradizione e della pagina evangelica, poteva inventare. Leonardo: grande maestro, vero teologo