Milano, la città che secondo la tradizione per secoli ospitò le spoglie dei Magi, in questi giorni offre alla pubblica ammirazione due “nuovi” e straordinari capolavori che hanno per tema l’Epifania del Signore. Il primo, come è noto, è in mostra al Museo Diocesano “Carlo Maria Martini”: si tratta della magnifica pala di Paolo Caliari detto Veronese, proveniente dalla chiesa di Santa Corona a Vicenza, illustrata su queste stesse pagine già nei mesi scorsi e che rimarrà esposta nei Chiostri di Sant’Eustorgio fino al 3 febbraio. Il secondo, invece, costituisce l’ormai consueto “dono natalizio” del Comune di Milano, che quest’anno è rappresentato dalla splendida tavola del Perugino, in prestito dalla Galleria nazionale dell’Umbria di Perugia, presentata come sempre nella Sala Alessi di Palazzo Marino, sino a domenica prossima.
Smaglianti e limpidi appaiono, più che mai, i colori dell’Adorazione dei Magi di Pietro Vannucci detto il Perugino, che infatti è stata restaurata proprio in occasione della trasferta milanese, grazie agli sponsor che hanno sostenuto l’iniziativa. Un’opera dove lo sguardo passa di meraviglia in meraviglia, contemplando ora i dettagli delle vesti sontuose, ora i lineamenti dei volti ritratti, fino all’aprirsi di un paesaggio quieto e solare, in una composizione che già rivela lo spirito rinascimentale di equilibrio e armonia.
La scena appare nettamente divisa in due parti: a destra Maria che, quale trono mistico, presenta suo Figlio che accoglie i visitatori con gesto benedicente, in una nudità che è il segno più immediato ed evidente del mistero dell’incarnazione, lui che è vero uomo e vero Dio; a sinistra i tre Magi e i loro accompagnatori, raffigurati in un gruppo compatto, quasi timoroso ad avvicinarsi ulteriormente al “re dei re”.
A fare come da “cerniera” fra le due sezioni c’è in alto la stella che i saggi d’Oriente hanno seguito fino a Betlemme: un astro in cui forse il Perugino tratteggia quella cometa che si manifestò nei cieli italiani attorno al 1475, ma che qui diventa il “faro” che, anche in pieno giorno, rivela il Salvatore, rimando alla vera Luce che l’umanità attendeva. Ma, in basso, ci sono anche l’asino e il bue, separati da un recinto eppure ancora al centro dell’evento, anche fisicamente, non tanto quale simpatico omaggio alla tradizione presepistica, ma proprio quale forte richiamo alle profezie messianiche, a quei popoli tutti chiamati ad adorare il Signore che viene.
Giorgio Vasari citava questo dipinto del Perugino come «una delle prime opere che facesse», e questo perché non gli pareva «di quella bontà che sono l’altre cose di Piero». Un giudizio che a noi oggi suona forse eccessivamente severo, ma che in passato ha portato anche illustri storici dell’arte a sostenere una diversa paternità di questa grande pala d’altare (misura 240 centimetri d’altezza per 180 di base), tanto essa sembrava distante e “acerba” rispetto alle opere più celebrate e “mature” del grande maestro umbro.
Noi però che fortunatamente non abbiamo di questi imbarazzi, possiamo goderci in tutta serenità questa splendida tavola, divertendoci anzi a individuare quegli elementi che testimoniano la formazione del Perugino: le suggestioni, cioè, di cui il giovane Vannucci poté nutrirsi durante gli anni trascorsi nella bottega del Verrocchio, gomito a gomito con quelli che sarebbero diventati, insieme a lui, i più grandi protagonisti della pittura del Rinascimento, dal Ghirlandaio a Botticelli, da Lorenzo di Credi a Leonardo da Vinci.
In ogni tratto di questo lavoro, del resto, si coglie l’orgoglio del giovane pittore che ha avuto la sua prima e grande occasione di mostrare il valore della sua arte: fu infatti il potente casato dei Baglioni, di fatto i signori di Perugia (nonostante il dominio pontificio), a commissionare all’emergente Vannucci quest’opera per il proprio altare nella chiesa di Santa Maria dei Servi nel quartiere di Colle Landone. E il Perugino, consapevole del proprio talento, si “mette dentro”, ritraendosi nel margine a sinistra, ultimo tra i Magi, così come realmente è: giovane poco più che ventenne, con la berretta rossa ben calcata in testa (quasi un segno distintivo dei pittori stessi, all’epoca), senza nascondere le imperfezioni della pelle. Particolari che ritroveremo anche in un autoritratto ben più celebre, quello nel Collegio del Cambio, un quarto di secolo più tardi, quando ormai il Perugino era considerato «il meglio maestro d’Italia».