«La vita va avanti, la vita deve andare avanti. Noi non ci pieghiamo al terrore, assolutamente. Il terrore vuole proprio questo, l’interruzione e la paura. Non lo possiamo permettere. Per questo continuiamo a vivere e non chiudiamo le sinagoghe. La vita è la cosa più importante. È chiaro che non dipende solo dalla nostra volontà. Dipende anche da quanto lo capiscono gli altri paesi e nei contesti internazionali. Dal diritto di Israele a vivere, a sopravvivere, a resistere alla minaccia». Al termine di una giornata difficilissima Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche in Italia (Ucei), fa il punto sull’allerta massima scattata anche in Italia attorno alle sinagoghe e ai centri ebraici mentre in Israele infuria la guerra.
Ieri le comunità ebraiche celebravano l’ottavo giorno di Sukkoth che prende anche il nome di Simchat Torah, la “gioia della Torah”, perché è il giorno in cui si termina la lettura dei cinque libri in cui la Torah è composta.
Presidente Di Segni, c’è un’allerta anche in Italia?
«C’è stata un’allerta di una minaccia precisa e mirata a tutte le comunità e quindi c’è un incremento di tutto quello che possono essere i presidi di sicurezza interni delle forze dell’ordine».
Concretamente come cambia la vita in sinagoga alla luce di questa allerta?
«Dobbiamo ovviamente attenerci alle regole scrupolose di attenzione. Ma la vita continua perché deve continuare ed è giusto che le sinagoghe siano rimaste aperte durante il sabato e ieri per la festività. Ovviamente con una maggiore attenzione. Questo vale per tutta l’Italia».
Ci sono stati episodi particolari oppure questi due giorni è andata bene?
«No, è andata molto bene. Ringraziamo tutte le forze dell’ordine perché non è scontato e se le cose vanno bene, c’è sempre qualcuno dietro che le fa andare così. Tanti volontari e tanta professionalità».
Qual è il sentimento che si registra nelle vostre comunità?
«Siamo sconvolti, scioccati. Siamo devastati, sfiniti dalle immagini che vediamo. Uno shock totale, per tutti i massacri perpetrati ai civili e per tutti i civili deportati a Gaza. Abbiamo visto cose orribili, decine e decine di neonati, ragazzi, donne e anziani, usati come scudi e trofei umani. Terrificante. Ma c’è anche il sentimento di arginare l’isolamento di Israele, di affermare la legittimazione di Israele di potersi difendere, di capire con chi si ha a che fare. È fondamentale che il mondo capisca con chi abbiamo a che fare e appoggi il pieno diritto d’Israele di difendersi in una situazione di guerra. A tutti i livelli, senza te e senza ma».
All’Angelus anche il Papa ha lanciato un appello. Ha detto che la guerra è una sconfitta sempre e per tutti. Quanto sono importanti le voci di Papa Francesco e dei leader religiosi?
«Noi abbiamo apprezzato molto anche il suo riferimento allo Stato di Israele. Forse è una novità, cioè capire che quella è l’entità, non è solo la Terra Santa. È lo Stato di Israele. È lì che si sta svolgendo questo attacco ed è contro lo Stato di Israele che si è sferrata la guerra. Penso che sia molto importante che anche il mondo religioso abbia dato un segnale di condanna così forte».
Il prossimo 16 ottobre si celebrano gli 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma. Questa ricorrenza cade purtroppo mentre siamo sprofondati in una guerra drammatica con immagini di deportazioni che pensavamo fossero relegate per sempre alla storia. Cosa significa per voi questo?
«Vivremo questo anniversario con la consapevolezza che non sono solo pagine di storia, che quanto avvenuto nel passato, succede ancora oggi, adesso, qui. Più evidente di così, non può essere. Non sarà quindi solo un richiamo a dire mai più. Al contrario, dovremmo dire che la storia può ripetersi e che c’è ancora oggi chi vuole che si ripeta. In modi diversi, con tecnologie nuove e situazioni che lo consentono. Non sono più pagine di storia da studiare e da ricordare. È realtà, attualità. Succede lì, succederà qua».
Voi siete ormai diventati veramente degli esperti della memoria. Quale l’antidoto all’odio e alla guerra?
«Per noi è la cosa più importante è educare i nostri figli, dal giorno stesso in cui nascono, ad amare gli altri esseri umani. Essere incuriositi dagli altri e apprezzare la vita che si ha e le libertà che si hanno».
Quel grido lanciato tante volte dai leader religiosi “mai più” sembra essere caduto invano.
«Si è tradotto in purtroppo ancora».
La guerra si prospetta lunga. Quale la sua speranza?
«Intanto noi possiamo pregare, ogni minuto e ogni secondo, perché la guerra possa fare meno vittime possibili e spargere meno sangue. Però, anche il mondo ha i suoi poteri e le sue responsabilità per frenare e denunciare questi massacri, portandoli davanti ai tribunali internazionali e condannando la loro strumentalizzazione. Quanto sta accadendo non è deciso dal popolo palestinese ma sostenuto dalle organizzazioni terroristiche. E, ovviamente, condannando l’Iran e non accordando nulla di nulla. Ci sono quindi tanti livelli in cui anche il mondo può fare la sua parte. Noi continueremo a pregare che Dio protegga i ragazzi, soldati, volontari e famiglie, impegnati nella difesa delle preziose vite e ogni palmo di terra di Israele, in queste precipitose ore, e porti guarigione alle migliaia di feriti in cura».