Forse fu uno dei canonici più anziani del Duomo a svelargli il «segreto»: la cattedrale ambrosiana conservava una straordinaria reliquia, uno dei chiodi della Santa Croce. Carlo Borromeo ne rimase stupito: da una decina di anni era arcivescovo di Milano, ma non ne aveva ancora sentito parlare. Per la viva devozione che nutriva verso la Passione di Cristo volle subito saperne di più: dove si trovava, quel venerabile oggetto? Lassù, gli fu risposto. E il dito del canonico puntava in alto, sopra il presbiterio, dove la penombra celava agli sguardi un tabernacolo, con il suo sacro tesoro…
San Carlo non era l’unico a non sapere: anche molti milanesi ignoravano ormai la presenza del Santo Chiodo nel Duomo di Milano (leggi qui un approfondimento). Oltre un secolo, infatti, era trascorso dalla solenne cerimonia che, il 20 marzo 1461, aveva traslato la reliquia dalla basilica estiva di Santa Tecla, in via di demolizione, alla nuova cattedrale, in costruzione. I lavori del tiburio, però, furono conclusi solo cinquant’anni più tardi: e fu allora, evidentemente, che il Santo Chiodo venne collocato sulla sommità della volta absidale. Per metterlo al riparo da furti sacrileghi (tutt’altro che rari, all’epoca), ma soprattutto per dare alla reliquia un posto eminente, conformemente alla tradizione ambrosiana di porre il Crocifisso sul fastigio dell’arco trionfale della chiesa.
In quei mesi il flagello della peste era tornato a colpire il territorio di Milano, e ogni giorno la situazione si faceva più grave e drammatica. Le autorità avevano abbandonato la città, e solo l’arcivescovo era rimasto con la gente, impaurita, sofferente, bisognosa di un segno di speranza. Il Borromeo guardò su, nel punto che gli aveva indicato il canonico e pensò che era giunto il momento di riportare il Santo Chiodo tra i fedeli del suo gregge.
Una volta che lo ebbe tra le mani, san Carlo lo incastonò in una croce di legno, semplicissima (quella che oggi è custodita nella parrocchiale di Trezzo D’Adda). Poi, con il capo coperto, una corda al collo e a piedi nudi, come umile penitente il 6 ottobre 1576 s’avviò in processione dal Duomo al santuario presso San Celso, tenendo la croce, con il suo sguardo fisso sul Santo Chiodo. Gli uomini e le donne, gli anziani e i bambini, vedendolo passare si gettavano in ginocchio, con le lacrime agli occhi: un popolo intero implorava misericordia all’Altissimo.
Da quel giorno, narrano le cronache, il morbo effettivamente, prodigiosamente, andò attenuandosi. E san Carlo stabilì che quel rito si sarebbe ripetuto ogni anno, nella solennità che all’arcivescovo pareva più consona alla santa reliquia, cioè quella dell’Invenzione – ovverossia il ritrovamento – della vera Croce da parte di sant’Elena, madre di Costantino: del resto fu lei, secondo la tradizione confermata da Ambrogio stesso, a recuperare, fra i vari reperti, anche i chiodi della crocifissione di Gesù.
Restava il problema di come raggiungere l’alto tabernacolo a 40 metri d’altezza. La prima volta, probabilmente, i chierici si erano fatti aiutare dalle maestranze della Fabbrica del Duomo, con corde, argani e una pedana improvvisata, magari del tipo di quelle usate da muratori e artisti nel cantiere. Ma dal momento che il prelievo del Santo Chiodo, e il suo successivo ricollocamento, venivano a inserirsi all’interno di una specifica liturgia, così ricca anche di significati simbolici, apparve evidente che occorreva un macchinario apposito.
Così, già con san Carlo, ce lo testimoniano i suoi biografi, venne approntato una sorta di «ascensore», che con l’accensione di numerosi lumini al suo interno, nella semioscurità della volta, creava l’effetto di una nube luminosa che saliva al cielo, discendendone con la venerata reliquia: da qui il nome popolare di «nivola» (leggi qui un approfondimento).
Quella ancora oggi in uso (modernizzata ed elettrificata), appartiene tuttavia a un altro Borromeo: il cardinal Federico, cugino e successore di san Carlo, di manzoniana memoria. L’attuale navicella, infatti, venne approntata nel 1624, forse su disegno del Cerano, eliminando le luminarie (che, per quanto suggestive, erano a rischio di incendio) a vantaggio di una decorazione pittorica che dà al mezzo l’aspetto di una nuvola accompagnata da putti angelici.
La processione con il Santo Chiodo, alla volta della chiesa di San Sepolcro, si svolse fino all’epoca napoleonica, anche con la partecipazione di regnanti e illustri personaggi. Limitata tra le mura del Duomo dopo l’Unità d’Italia, fu sospesa negli anni Sessanta del secolo scorso per i lavori di consolidamento dei piloni. Riprese nel 1982 al termine degli interventi di restauro e con il cardinal Martini, nel quarto centenario della morte di san Carlo, tornò a essere un appuntamento fisso, in prossimità del 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce.
E anche quest’anno, così, si ripete il suggestivo Triduo del Santo Chiodo: con l’arcivescovo che preleva la reliquia con la «nivola», con le celebrazioni eucaristiche e con la processione in Duomo, per concludersi il terzo giorno, dopo i vesperi, quando la reliquia viene ricollocata nel suo alto tabernacolo.