Arsago Seprio celebra un suo figlio illustre: l’arcivescovo Arnolfo II, di cui ricorre quest’anno il millenario della morte. Pastore prudente della Chiesa ambrosiana nel passaggio tra il primo e il secondo millennio, abile diplomatico al servizio del Sacro romano impero, Arnolfo è stato un protagonista del suo tempo, che merita di essere conosciuto anche da un pubblico più ampio di quello degli specialisti del Medioevo.
Anzi, le iniziative in programma nelle prossime settimane per questo significativo anniversario possono essere l’occasione anche per riscoprire le evidenze monumentali di Arsago Seprio. Un borgo antico, che, posto sulle ultime propaggini delle Prealpi varesine, si è sviluppato attorno a un nucleo storico altomedievale, con insediamenti umani che risalgono al Neolitico e all’età del bronzo (come testimoniano i numerosi ritrovamenti archeologici, raccolti nel locale Museo civico),
Nel V secolo, in età paleocristiana, Arsago acquista importanza divenendo capo pieve. Del periodo longobardo rimane una significativa necropoli, tuttora visibile, ed in età carolingia la presenza degli Arnolfi, famiglia d’origine teutonica, porterà all’abitato prestigio e potenza. Il massimo splendore è comunque raggiunto nel XII secolo, come testimoniano i resti di edifici civili e, soprattutto, quelli religiosi.
A cominciare dall’eccezionale complesso di San Vittore: il battistero, la basilica, il campanile, e attorno un quieto spazio erboso, che lega e allo stesso tempo apparta dal borgo circostante. E mentre lo sguardo s’adagia sulle grosse pietre squadrate, sfiorandone le asperità, ammirandone il taglio preciso, un’idea curiosa, divertente persino, ci conquista piano piano… La successione degli edifici religiosi, il loro allineamento, la loro unità stilistica e architettonica, il contesto in cui sono inseriti: sì, davvero questo di Arsago Seprio appare come un piccolo, ambrosiano “Campo dei Miracoli”.
Pisa è lontana, certo, e così i fasti e la ricchezza della potente repubblica marinara. Ma anche quest’angolo di terra varesotta ebbe in verità i suoi momenti di gloria nell’età medievale, situato com’è in posizione strategica lungo l’antica strada che collegava Milano al Lago Maggiore, a capo di una delle pievi primigenie della diocesi ambrosiana
Il complesso di San Vittore sorse, così come ancora oggi l’ammiriamo, attorno al 1100, anche se gli studiosi continua a confrontarsi sulla sua datazione. Non è chiaro, ad esempio, se la chiesa e il battistero furono concepiti contemporaneamente, o se la loro realizzazione avvenne in tempi diversi. Simile è infatti la sapienza costruttiva delle due strutture, seppur non identica: più “tradizionale” l’una, più compatta l’altra.
Quel che colpisce, comunque, è il senso di unità, di dipendenza perfino, di un edificio con l’altro: basilica e battistero, ad una prima occhiata, paiono quasi un tutt’uno, senza interruzioni, senza spazi intermedi. Se ciò fu deciso per libera scelta o per una costrizione ambientale, oggi è difficile dirlo. Restano le suggestioni, che nell’allungarsi delle ombre al vespero sussurrano di una complicità fraterna, di una volontà di unire il più strettamente possibile riti e liturgie, catecumeni e fedeli, come in un abbraccio.
Il battistero, dunque. Massiccio, essenziale, di una solidità senza tempo. La base fatta di cubici macigni, imponenti, quasi fosse un tempio ciclopico. E il vento scivola sugli spigoli vivi, taglienti, sulle pareti che sembrano levigate. Due porte, tre bifore e nessun’altra apertura, se non minuscole, occultate feritoie. Il tiburio, più in alto, s’anima invece d’archi profondi, di finestrelle sagomate, che danno slancio, che irradiano luce, ma che non sminuiscono in nulla la compostezza dell’insieme.
L’interno è inaspettatamente accogliente. Ci si sente protetti, al sicuro. E ci si meraviglia di trovarvi un simile gioco volumetrico, fatto di nicchie, di arcate, di pieni e di vuoti. Un ambiente di armoniche proporzioni che soltanto il romanico più attento e maturo poteva ideare. Un luogo in cui tutto sparisce e si quieta, in cui nasce il desiderio di guardarsi dentro, in pace, in silenzio.
Otto sono i lati di questo battistero varesino, secondo una consolidata, diffusa tradizione. Perché, fin dalle origini, questo fu un numero denso di significati per il credo cristiano: otto come sigillo della Nuova Alleanza, come realizzazione delle promesse espresse nell’Antico Testamento. L’“ottavo giorno” è quello della risurrezione di Cristo, osservò il padre Ambrogio: è il completamento della Creazione, il superamento del tempo dell’uomo, la nuova vita a cui il catecumeno è ammesso attraverso il battesimo. Otto sono le beatitudini evangeliche, ma otto sono anche quanti scamparono al diluvio insieme a Noè, dando origine ad una nuova stirpe di uomini.
Ciò che qui è in basso, pesante, buio, si fa via via più leggero, più luminoso. Il matroneo è come una balconata sul cielo, che rinuncia a balaustre e parapetti per essere ancora più aperta ed aerea. E alla pianta ottagonale si sovrappone infine la circolarità della volta, tensione ideale alla perfezione divina: come il cammino di chi riceve il battesimo, che dopo l’immersione, purificato dall’originale peccato, rinasce alla luce.
Anche la chiesa accanto, nonostante gli interventi ottocenteschi, rivela tutta la sua sacrale imponenza. Conci più piccoli e più irregolari compongono le mura di San Vittore, ma accuratamente disposti, incastrati l’uno sull’altro con paziente lavoro. Come nel battistero, non c’è spazio qui per fronzoli e inutili orpelli: la linea è pulita, immediata. Una fascia di archetti ciechi è l’unico motivo ornamentale presente, che si dipana elegante su tutto il perimetro dell’edificio.
La planimetria è quella classica basilicale, senza transetto, di una austerità esemplare: una navata centrale affiancata da due minori, tutte absidate e aperte ad Oriente. Il presbiterio è sensibilmente sopraelevato, ma non c’è cripta, né transetto. E si respira ancora un’aria di solenne mistero, nonostante la scialba intonacatura del secolo scorso abbia purtroppo falsato l’equilibrata spazialità interiore. Originale, invece, è il partito dei sostegni, con l’alternarsi dei grossi pilastri e delle esili colonne, romane, quest’ultime, e reimpiegate con il gusto per le cose belle, così come i capitelli fioriti.
Forte e possente è anche il campanile, quasi una torre di guardia, baluardo di un’inespugnabile fortezza. Tanto solido e compatto che neppure le campane sembrano riuscite a trovare posto al suo interno: le vediamo infatti a cielo aperto, collocate curiosamente in cima al tetto. A ben guardare, tuttavia, il campanile non è “a piombo”: pende, leggermente, ma pende. E il piccolo miracolo “pisano” continua…