«Se si conoscono, anche nelle differenze, e imparano a stare vicino, non hanno paura e possono vivere meglio insieme». Rita Bichi, docente di sociologia generale all’Università cattolica di Milano, ha coordinato la ricerca su un campione di giovani italiani, nativi e “nuovi”, pubblicata nel volume Felicemente italiani. In un contesto politico-mediatico dove prevalgono paure e diffidenze, tra i giovani conta invece la conoscenza personale, al di là del colore della pelle. E tra i nuovi italiani emerge l’orgoglio di esserlo.
Come nasce la vostra ricerca?
Dal 2012 l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo ha fatto rilevazioni quantitative sondando le disposizioni dei giovani italiani nei confronti degli stranieri. I risultati non sono stati così esaltanti: è emersa una certa diffidenza sui fenomeni immigratori in genere, molto meno sugli immigrati irregolari. Questo ci ha lasciato il sospetto che fosse dovuto non tanto a una reale disposizione negativa verso gli stranieri, quanto a una diffusa percezione di rischio per il proprio futuro e quindi di chiusura verso possibili competitor sul mercato del lavoro, viste le difficoltà soprattutto dei Millennials che non riescono a inserirsi. Questa ipotesi ci ha fatti propendere per un approfondimento facendoci raccontare le loro esperienze. Anche su sollecitazione della Fondazione Migrantes, nostro partner in questa ricerca, abbiamo allargato il nostro campione anche tra i giovani italiani con un’esperienza di immigrazione familiare. Li abbiamo chiamati giovani italiani con un background immigratorio, con cittadinanza italiana, ma non nati italiani perché figli di stranieri arrivati nel Paese.
L’ascolto dei nuovi italiani è una novità…
Sì, è la prima volta che si fa in Italia con un campione abbastanza ampio come il nostro. Forse questa è la parte più interessante della ricerca, come tutti i risultati ottenuti. Al contrario delle risultanze quantitative, rimandano all’idea di giovani molto aperti all’altro, al diverso, allo straniero, che guardano poco alle differenze tradizionali, in favore di quelle individuali: si guarda a una persona non per il colore della pelle, non per la sua cultura o religione, ma in quanto persona e quindi la giudica in base a ciò che fa e dice. Questo è un aspetto molto rilevante. Abbiamo visto anche che i giovani italiani – sia nuovi, all’ sia alla nascita – hanno una predisposizione alla mobilità, al cosmopolitismo, all’essere aperti al mondo, sono cittadini del mondo. Questa generazione ha viaggiato con l’Erasmus, ha studiato fuori, purtroppo è anche andata a lavorare all’estero.
Quanto incidono i luoghi comuni e la polemica politica e mediatica nella percezione di questo fenomeno tra i giovani?
Incidono moltissimo, perché ciò che tutti noi – non soltanto i giovani – sentiamo dei fenomeni, è mediato da ciò che viene raccontato soprattutto dalla Rete e dalla televisione. Le fonti mediali sono sempre quelle che orientano il nostro modo di vedere le cose, così accade a maggior ragione per i movimenti immigratori.
C’è un meticciato reciproco?
Assolutamente sì, soprattutto a livello culturale. Sono coinvolti non solo i giovani, ma ormai tutti noi, soprattutto chi abita nelle grandi città e al Nord. In questi contesti i meticciamenti sono evidenti in alcuni ambiti della vita: si pensi al cibo, agli spettacoli culturali, al modo di vestire, alcuni elementi delle diverse culture che abbastanza velocemente si propongono come alternative.
I nuovi sono orgogliosi di essere italiani?
Altroché, più dei nativi. Loro hanno avuto una storia diversa con i sacrifici dei propri genitori per migliorare la propria condizione, che si sono sobbarcati un viaggio per arrivare qui, molto spesso doloroso. Hanno vissuto questo sforzo di miglioramento che ha avuto successo per queste persone, perché sono riuscite a integrarsi, tanto che hanno preso addirittura la cittadinanza. Questo traguardo raggiunto li pone anche nei confronti del futuro in una posizione più aperta, più disponibile, più fiduciosa, più speranzosa degli altri che invece hanno vissuto una situazione non così felice.
L’Italia è un Paese che sta invecchiando: l’andamento demografico non è roseo. Questi giovani possono rappresentare il futuro del Paese, nonostante le polemiche politiche?
Sì, certamente possono dare una mano perché non sono moltissimi, nonostante le visioni apocalittiche che ogni tanto vengono diffuse, ma non sono in numero tale da sostituire quelli che mancano. Tuttavia è una popolazione in crescita e ha queste caratteristiche: si pone in maniera positiva nei confronti del Paese, è orgoglioso di essere italiano. Come i giovani nativi, vedono l’Italia come un Paese bello, dove c’è corruzione e delinquenza organizzata (come i ragazzi mettono sempre in evidenza), ma complessivamente è un Paese dove si vive bene.
Quale ruolo possono giocare le agenzie educative (scuola, università, Chiesa) per favorire il superamento dei muri?
Sono proprio i giovani a dire che è la scuola l’agenzia principale attraverso la quale deve passare l’integrazione, l’avvicinamento e la convivenza pacifica. È assolutamente fondamentale, ha un potenziale enorme, perché vede i giovani insieme tutti i giorni in uno stesso luogo. Come lo sono tutte le agenzie educative, compresa la comunità cristiana, che sono in grado di mettere insieme questi ragazzi, perché ciò che fa la differenza è la conoscenza.
Il fattore religioso incide nella valutazione?
È assolutamente in secondo piano. È una dimensione presente, ma che non inficia la comunicazione, almeno per la stragrande parte dei giovani. Ci saranno anche frange di conflitto, questo non lo escludiamo, però nella gran parte dei casi non è così.