Nel corso di una recente audizione alla Commissione bicamerale di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Enrico Giovannini (già ministro del lavoro) ha riferito che, nel triennio 2012-2014, a causa della evasione fiscale e contributiva, si è registrato un minor gettito fiscale e contributivo per un valore medio di 109,6 miliardi di euro annui. Solo una minima parte di questo gettito non dichiarato viene recuperata annualmente dai servizi ispettivi, di modo che resta un inevaso pari a circa l’87% della massa complessiva, con un danno evidente sia per il sistema previdenziale (si tratta di un importo pari a quello di una manovra finanziaria) sia per i singoli lavoratori (che riceveranno una pensione più bassa o che saranno costretti a lavorare sino ai 71 anni pur di poter ottenere qualcosa dal sistema previdenziale, secondo quanto già da alcuni anni previsto dalla legge “Fornero” del dicembre 2011 di riforma del sistema pensionistico.
Seppure non si può dire che l’economia sommersa (o “in nero”) sia un fenomeno solo italiano, è chiaro come la mancata rilevazione di una percentuale di lavoratori – che in certi settori si stima sino al 30% – viene ad alterare il corretto funzionamento del sistema dell’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro, dell’apparato fiscale e previdenziale, delle politiche di promozione dell’occupazione, impedendo altresì all’Italia di porre in essere una politica strutturale di contrasto alla povertà.
Noti sono i settori più a rischio (appalti, immigrati, lavoro in agricoltura) e non poche sono state le iniziative legislative più recenti, anche europee, che hanno avuto di mira il contrasto all’economia “informale”, attraverso un insieme variegato di misure.
E invero, come si è incaricato di dimostrare all’inizio di quest’anno il dibattito accesosi sulla iniziativa referendaria promossa dalla Cgil sul lavoro “a voucher” e sulla responsabilità solidale negli appalti, uno dei maggiori fattori di precarietà del mercato del lavoro rimane il mancato rispetto delle regole, favorito da un sistema di vigilanza amministrativa che, malgrado i progressi realizzati già dalla riforma del 2004, rimane ancora largamente inefficace, tanto che in alcuni settori, come l’agricoltura, la questione assume spesso i colori del dramma.
In questa direzione l’istituzione dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) ad opera del decreto legislativo 149 del 14 settembre 2015 nell’ambito del Jobs Act, perfezionata nell’ottobre del 2016 con la materiale costituzione dell’ente, dovrebbe avviare una nuova fase, diretta al coordinamento fra le tante istituzioni coinvolte (Ministero del lavoro, Asl, Inps, Inail, nucleo dell’arma dei Carabinieri) così da garantire una maggiore incisività dei controlli.
Nello stesso senso, anche un’azione mirata avverso la corruzione nel sistema degli appalti pubblici (e i subappalti) potrebbe giocare un importante ruolo nel contrastare la diffusione del lavoro illegale, evitando che siano favorite nell’aggiudicazione le imprese che contengono i costi soprattutto attraverso una indebita riduzione delle retribuzioni e dei contributi obbligatori.
L’azione di contrasto al lavoro nero richiede tuttavia anche altre misure, poiché essa abbraccia anche i lavoratori migranti, e il settore delle prestazioni manuali, come dimostra la cosiddetta legge “sul caporalato”, recentemente riscritta. Si tratta di temi sui quali l’attenzione delle organizzazioni dei lavoratori e della stampa quotidiana è stata a lungo latitante ma che non possono più sfuggire a un serio intervento di contrasto, soprattutto sul piano della azione quotidiana delle forze di vigilanza.