È possibile ascoltare il cantico dell’esultanza nel luogo del dolore contemporaneo per eccellenza – il cimitero -, abituati, come siamo, a negare la morte? Sì lo è, se per un momento non si ascolta solo il rumore della città e si pensa al Signore che salva tutti, chi vuole sentire e chi no.
Per la prima volta, monsignor Mario Delpini presiede la Celebrazione eucaristica, come arcivescovo di Milano, nello storico cimitero della città, che, non a caso, si chiama fin dal suo sorgere, il “Monumentale”. Bello, a suo modo, con il sole all’orizzonte, i monumenti, appunto, e le tombe di firme famose, con il suo essere un’isola di tranquillità tra i quartieri della movida, le nuove eccellenze metropolitane, lo sky line alla moda.
A tutto questo fa simbolico riferimento l’Arcivescovo che parla della speranza che non tramonta, dopo aver sostato al Famedio per rendere omaggio al cardinale Dionigi Tettamanzi, il cui nome è stato iscritto dal Comune tra quelli dei cittadini illustri e benemeriti della città, come già accaduto, negli ultimi anni, per il cardinal Martini e sacerdoti quali don Raffaello Ciccone o monsignor Luciano Migliavacca.
Un gesto meritorio nei confronti del Cardinale scomparso nell’agosto scorso «per un uomo meritevole, per il suo impegno, per la sua presenza affettuosa in mezzo alla gente e l’iniziativa a favore dei più poveri», spiega.
Poi, subito, la Messa celebrata, come tradizione, all’aperto all’ingresso del Cimitero, davanti ai tanti fedeli che prendono parte alla Messa, tra cui la rappresentante del sindaco, Roberta Cocco, assessore anche ai Servizi funebri e cimiteriali.
«Ringrazio delle parole di accoglienza. Sono qui come Arcivescovo per celebrare l’Eucaristia, la Pasqua di Gesù che salva tutti, chi lo sa e chi non lo sa. Preghiamo per tutti», dice Delpini, dopo l’indirizzo di saluto rivoltogli dal cappellano del Monumentale, padre Francesco Vimercati, dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, cui è affidato il cimitero.
La riflessione dell’Arcivescovo
Dalla consapevolezza del presente della metropoli prende avvio l’omelia: «Nella città, più che un cantico di esultanza si ascolta il rumore. Il rumore fastidioso del traffico, lo stridio degli attriti, il ronzio degli apparecchi per rendere confortevole la vita, il baccano delle macchine che percuotono la terra. La città moderna sembra che non riesca a produrre il cantico di esultanza, produce piuttosto dissonanze e disturbo, produce rumore».
Evidenza – questa – che è sotto gli occhi di tutti e che l’Arcivescovo traduce ancora attraverso l’immagine cruda delle grida, concretissime o ideali, e che si sentono ovunque «nell’alveare abitato», in cui «è più è frequente raccogliere grida di rabbia, insulti di violenza, grida che invocano aiuto. Grido che dà voce al dolore, che esplode nella ribellione, che è come lo sfogo incontenibile della ferita che strazia la carne o affligge l’anima. Nelle strade della città si ascoltano grida, sulle scale dei condomini, dalle finestre aperte delle solitudini, dallo sfidarsi violento da cui vengono grida che fanno paura».
Infatti, nella vita disabitata di chi è solo ̶ aggiunge ̶ o «nei locali del tempo sprecato», laddove si «ascolta la musica assordante dell’evasione, quella che aggrega, ma impedisce l’incontro, quella sentimentale che crea l’emozione precaria o quella del passatempo che incoraggia il fantasticare per evadere da troppa noia», non si canta di esultanza.
E, così, forse i cimiteri, nei quali «il rumore giunge attutito e la musica assordante sarebbe fuori luogo», possono davvero diventare gli spazi privilegiati del silenzio. Ma non quello, come sarebbe fin troppo facile credere, della rassegnazione «che si inchina alla prepotenza del nulla e alla tirannia della morte; dell’incupirsi per l’irrimediabile assenza delle persone amate» o della commemorazione dovuta e che non inquieta. Al contrario, il silenzio profondo dell’Eucaristia, «della morte e risurrezione del Signore che introduce proprio qui, dove lo sguardo si spaventa per la prepotenza del nulla e la tirannia della morte, il cantico dell’esultanza». Il silenzio che «scardina le porte degli inferi e rivela che cosa sia la morte: per i cristiani, la grande tribolazione che si attraversa come un lavacro e che introduce al coro immenso della festa eterna di Dio», scandisce l’Arcivescovo.
Un cantico, questo, che è, anzitutto, «per i poveri, i miti, i perseguitati che riconoscono la verità delle beatitudini, per chi è segnato con il sigillo del Dio vivente e si riconosce servo del Signore, affidandosi a Lui e sperimentando l’alleanza di Dio».
Per questo, a conclusione della Celebrazione, monsignor Delpini lascia a tutti la speranza di «sentirsi trasfigurati e di percorrere le strade della città, non per insegnare qualche ideologia», ma per essere abitanti di una città della gioia. «Come ogni Messa si conclude con la Benedizione, così la Chiesa vuole dire che ogni vita è benedetta da Dio. Andiamo per le strade dell’impegno, della fatica e della festa, sempre con la persuasione che la nostra vita sia benedetta da Dio, nostro alleato sempre»