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Cittadinanza

Ius soli, un fatto di equità e di civiltà

Italiani a tutti gli effetti della vita quotidiana, ma non lo sono di diritto

di Gianfranco Garancini

18 Settembre 2017

Nel 1868 il XIV emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America stabilì che: «Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e sotto poste alla relativa giurisdizione». Da allora non è più cambiato. Questo è lo ius soli.

Nel 1992 (legge del 5 febbraio 1992, numero 91, “Nuove norme sulla cittadinanza”) si ribadì nel nostro Paese il principio generale secondo cui (salvo alcune curiose eccezioni, oppure trafile amministrative fondamentalmente insuperabili) la cittadinanza si acquista per trasmissione da parte di almeno un genitore che sia già cittadino italiano. Questo è il cosiddetto ius sanguinis. In Italia è sempre stato così (si veda per esempio la legge del 13 giugno 1912, numero 555, “sulla cittadinanza italiana”, il cui primo articolo è riprodotto pressoché alla lettera nel primo articolo della vigente legge numero 91 del 1992.

Il 15 marzo 2013 fu presentato da senatori di non pochi partiti il disegno di legge (ddl) numero 17, che constava di otto righe, finalizzato all’introduzione della formula “secca” (articolo 1, comma 1, lettera b) che avrebbe dovuto stabilire che «è cittadino per nascita… chi è nato nel territorio della Repubblica», radicando anche nel nostro Paese il principio dello ius soli, secondo cui chi è nato in Italia è cittadino italiano.

Da allora si sono scatenate le polemiche, sovente basate su false informazioni (date o ricevute), su indebiti ampliamenti della questione giuridica (non è in discussione la disciplina della cittadinanza per chi non è nato in Italia), su numeri dati senza cognizione di causa, su prese di posizione molto più (o del tutto) ideologiche e demagogiche, piuttosto che razionali e giuridicamente fondate.

Nel corso degli anni, di emendamento in emendamento, di smussamento in smussamento, di compromesso in compromesso, le otto righe del ddl numero 17 del 2013 sono diventate un intricato testo normativo di quattro articoli (il ddl numero 2092 del Senato; come è noto alla Camera è già stato approvato) pieno di “distinguo”, di casi e sotto-casi, di condizioni e sub-condizioni, che renderebbero il cammino burocratico ancora più arduo e più intricato di quanto non sia già adesso. Ma è molto probabile che chi – al Parlamento e nelle segreterie dei partiti – discute di queste cose e si palleggia l’approvazione o la bocciatura del ddl numero 2092, alla sostanza, del diritto e altresì dei diritti di chi vi è coinvolto pensi ben poco.

Gli è, però, che si stanno palleggiando le vite (o almeno i diritti) di circa ottocentomila bambini e bambine, ragazzi e ragazze, giovani, che oggi si trovano nella situazione (molto più precaria di quella di molti adulti ) di non sapere se sono italiani o no: lo sono per lingua (basta salire su un tram o su un vagone della metropolitana per sentire ragazzi e giovinetti di tutti i colori, di tutte le provenienze, di tutte le origini che parlano italiano meglio di molti italiani “terricoli”, e con l’accento del luogo); lo sono per cultura (hanno frequentato o frequentano le scuole in Italia, con insegnanti italiani, studiando la cultura italiana, leggono giornali e seguono televisione e altri media italiani, cantano canzoni italiane); lo sono per dipendenza amministrativa e, quando lavorano o lavoreranno, fiscale. Insomma: la questione dello ius soli non riguarda i migranti, il popolo dei gommoni, e così via, ma riguarda un ben definito gruppo di persone che sono cittadini italiani di fatto a tutti gli effetti della vita quotidiana, ma non lo sono di diritto a causa di incongruenze, ostacoli, difficoltà, talvolta assurdità normative prima ancora che burocratiche. Più chiaramente: non possono diventare cittadini italiani e anche quando sembrerebbe che la legge offrisse uno spiraglio, non riescono ad arrivare in fondo al loro cammino per lentezze, pastoie, resistenze burocratiche.

Questi bambini, ragazzi, giovani, giovani adulti che nascono in Italia, crescono in Italia, vanno a scuola e all’università in Italia, saranno gli italiani di domani (a prescindere dalle paturnie dei legislatori) perché di fatto già lo sono, non possono ottenere oggi la cittadinanza per trasmissione dai loro genitori, perché i loro genitori non sono cittadini italiani; e se anche i loro genitori lo diventeranno, non potranno trasmettere la cittadinanza ai figli iure sanguinis, per diritto di sangue, perché nella stragrande maggioranza dei casi nelle more dei vari complicatissimi procedimenti… i figli saranno diventati maggiorenni.

Lo sanno bene quegli avvocati che se ne occupano professionalmente: i tempi di queste procedure sono esasperanti nella loro lentezza, e i requisiti sembran fatti apposta per preparare una risposta negativa (i diciottenni possono fare la domanda di riconoscimento della cittadinanza, ma solo entro un anno dal raggiungimento della maggiore età; fra i tanti requisiti, i giovani debbono dimostrare di aver avuto residenza legale senza interruzioni nel nostro Paese, facendo così dipendere il riconoscimento del loro diritto dal comportamento dei loro genitori o di quanti ne avevano la custodia quando erano minori; e così via).

Ma queste sembrano questioni “tecniche”, e – si sa – delle questioni tecniche la “politica” non si occupa. Peccato che dietro ogni questione “tecnica” in questa materia ci stia una vita, una persona.

Insomma: il riconoscere la cittadinanza a chi è nato qui, parla come noi (e anzi spesso meglio di noi, perché l’ha imparato bene e con puntiglio) l’italiano, ha la nostra cultura, è immerso nella nostra vita quotidiana, lavora o lavorerà fianco a fianco con noi, non è una questione di maggioranze o minoranze, di chi vince o chi perde; e nemmeno una questione di diritto; ma è un fatto di equità e di civiltà.

Ma forse il problema vero sta proprio qui.

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