La migrazione «non è una emergenza, ma una realtà con cui fare i conti con lucidità, realismo e capacità innovativa. Non è un problema da risolvere, ma una realtà da governare nella sua complessità, dando attenzione ai diversi valori: alla vita fisica delle persone, ossia se uno sta morendo va salvato; alla dignità delle persone, al loro desiderio di pace, giustizia e di un cammino di vita migliore». Ha parole chiare e nette monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana, affrontando il tema caldo delle migrazioni durante il suo intervento in apertura del 43° Convegno nazionale delle Caritas diocesane in corso fino al 20 aprile a Salerno. Nella città campana sono presenti 660 delegati da 173 diocesi, per riflettere sul tema «Agli incroci delle strade. Abitare il territorio, abitare le relazioni».
«Al servizio dei poveri»
«Sul tema dell’integrazione vorremmo che i migranti fossero tutelati dalle leggi e non limitati dalle leggi. Serve poi un lungo e paziente lavoro per eliminare le cause delle migrazioni forzate», ha precisato il presidente di Caritas italiana: «Vogliamo essere al servizio dei poveri, farci voce verso le istituzioni e le Chiese a nome dei poveri».
A spiegare bene il principio della carità è stato monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei: «L’opera della Caritas si mostra bella nell’accendere la carità nelle singole comunità. Il benessere dell’uomo non dipende solo dalla soluzione dei suoi problemi, ma dallo stare dentro contesti comunitari di empatia, prossimità». Inoltre, ha aggiunto, «sarebbe bello pensare a una solidarietà capace di estendersi ad altre comunità nel mondo in Siria, in Libano, in Africa», esortando tutte le comunità ecclesiali a un «impegno personale di incontro con i poveri. In questo la Caritas deve essere di aiuto»: «Il bisogno ha sempre un nome e un volto, come dice il Papa. Significa che davanti a un uomo lo sguardo deve cogliere l’interezza del suo bisogno, non solo di pane, ma anche di amicizia, di compagnia. Il rapporto con l’uomo che ha bisogno non può non aprirsi a un impegno sociale e politico perché il bene della persona dipende anche dal contesto in cui vive. Essere prossimo significa essere socio di una società. Per cui l’amore all’uomo non può non diventare capacità di denunciare le ingiustizie e ricostruire uno sviluppo nuovo, un nuovo modello. Ma dopo tre anni dalla pandemia, nel quale abbiamo sperato in un cambiamento, possiamo dire che questo proposito è abbastanza fallito».
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