At 1,12-14; Sal 18; 1Cor 4,9-15; Gv 14,1-14
Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte […]. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. (1Cor 4,9a.11-12a)
Bellissima questa immagine con cui Paolo descrive la condizione sua e degli altri apostoli, in cui risalta con evidenza come la forza dell’Evangelo non risieda nelle condizioni di favore degli evangelizzatori, ma nell’intrinseco dinamismo della Parola stessa. Dovremmo cercare questa condizione di Chiesa, e non quella trionfante e vincente secondo la logica mondana. Dovremmo abbandonare la pretesa della rilevanza sociale, per muoverci nell’orizzonte della normale partecipazione alla vita, alle fatiche, alle attese di questa storia che Dio ha visitato e abitato nel Figlio Gesù. Siamo tristemente debitori a lunghi secoli di smodata ricerca del potere, anche da parte di tanti pastori, ecclesiastici, uomini di Chiesa. Ora, invece, ci avvolga la Pasqua con la sua serena speranza, con lo slancio della grazia che viene dall’alto, con la fiducia che non noi, ma Gesù risorto ha vinto la morte e ha gettato luce su tutta la storia e sull’umanità intera, di oggi, ma anche di ieri e di quella che verrà dopo di noi.
Preghiamo
Il Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele;
risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
(Sal 147,2-3)