Le ferite inferte da una violenza inutile e assurda che non si rimarginano e quelle che, con percorsi di dialogo e di ripensamento, possono diventare una possibilità generativa di rinascita.
È su un crinale arduo, comunque doloroso, sospeso tra memoria, ricerca della giustizia, desiderio di riconciliazione che, in una Sala Alessi di Palazzo Marino gremita, si è svolto il convegno “Ricreare radici. Carlo Saronio, una storia di famiglia”. Incontro, aperto dall’Arcivescovo e dal sindaco Beppe Sala, che ha ripercorso la tragica vicenda del giovane ingegnere chimico milanese rapito e vigliaccamente ucciso (forse per errore tentando di stordirlo con il cloroformio) da un amico militante di Autonomia operaia.
Nella data esatta del rapimento, avvenuto il 14 aprile 1975 (il corpo verrà ritrovato solo 3 anni dopo), sono stati diversi i relatori che sono intervenuti, portando nelle loro parole e nei loro stessi nomi e volti anche il peso di vicende divenute retaggio storico, e spesso ancora irrisolto, di tutto il Paese: Mario Calabresi, che a Saronio ha dedicato un volume; Agnese Moro; Manlio Milani, presidente dell’Associazione Familiari delle Vittime di Piazza della Loggia; padre Piero Masolo, sacerdote del Pime e nipote di Saronio, il cui libro ha dato il titolo all’assise. Seduta in prima fila, confusa tra tanta gente, la figlia di Carlo, Marta.
L’intervento dell’Arcivescovo
Appunto dalle domande – o, meglio, da 2 enigmi che si propongono anche alla sua coscienza – si è avviata la riflessione dell’Arcivescovo. «Come vescovo sono sempre inquietato dall’interrogativo su cosa vi sia nel cuore di un uomo per arrivare a uccidere un altro uomo guardandolo in faccia. È un enigma che ha a che fare con un ulteriore enigma: cosa sia l’ideologia, un sistema di pensiero che convince che fare del male sia un bene. Come può funzionare questa assurdità?».
Ovvio, in un tale contesto, il riferimento alle ferite che stagioni insanguinate come gli Anni di piombo, preceduti da una escalation di violenza di cui è un esempio l’omicidio Saronio, hanno lasciato.
Ferita che, ha continuato il vescovo Mario, «talvolta è una piaga che non si rimargina e, quindi, una specie di zavorra che impedisce di correre liberi e sereni. Si può dimenticare per un momento, ma il pensiero poi torna sempre lì, semina amarezza, voglia di rivincita, desiderio di vendetta. Al contrario, con questo incontro, abbiamo una scuola di vita che ci dice che la ferita può non essere una piaga, un motivo di infelicità, ma un principio generativo affinché si possa costruire qualcosa di buono. Questa iniziativa ci incoraggia a capire che le ferite, come nel costato di Cristo, possono diventare acqua e sangue per un’umanità rinnovata e una storia nuova».
«Penso – ha aggiunto – che questi interrogativi continuino a inquietare tutti e il fare memoria è, allora, un modo per capire, per cercare di seguire le tracce, arrivando a scongiurare che tutto questo possa ripetersi. La storia insegna a chi vuole imparare. Non è automatico che la memoria possa produrre vigilanza, ma questi due enigmi, che hanno ferito profondamente la società, le persone coinvolte i loro familiari, ci chiedono di pensare».
L’orgoglio di non dimenticare
E se, come è stato ricordato più volte, «la memoria ha le gambe», occorre dire che in questi 48 anni, dopo un lungo periodo di oblio, finalmente di strada se ne è fatta anche per Carlo Saronio, secondo quanto ha sottolineato il sindaco Sala che ha espresso l’orgoglio di una Milano capace di ricordare attraverso iniziative come il “Giardino dei Giusti” e le pietre di inciampo. O con gesti simbolici come la targa apposta in corso Venezia 30, la casa dove abitava il giovane ingegnere, scoperta nella stessa giornata alla presenza, tra gli altri, del vicario generale, monsignor Franco Agnesi e della già ministro della Giustizia, Marta Cartabia.
«La nostra città si ferma a ricordare un innocente, vittima di una stagione di violenza e di odio che ha insanguinato il nostro Paese. Quello di Saronio fu uno crimini più spregevoli di quegli anni», ha scandito ancora Sala. «Fare memoria è un impegno che i milanesi hanno fatto proprio e che deve toccare tutto l’anno, non solo alcune date, per imparare dalla nostra storia. Oggi stiamo facendo una cosa giusta nel modo giusto e nel momento giusto».
Purificare la memoria
Sulla necessità di «purificare» la memoria, per renderla veramente utile al presente e, soprattutto, al futuro, si sono soffermati tutti i relatori, convinti della necessità di percorsi di giustizia riparativa e di dialogo da collocare in un preciso contesto storico. Gli anni ’70, appunto, «una stagione in cui crescono il terrorismo, gli espropri proletari, i sequestri, si espande la droga, ma arriva anche una riflessione sui diritti molti dibattiti», ha richiamato Calabresi, cui ha fatto eco Milani che, nella strage di piazza della Loggia, perse la moglie e molti amici. «Bisogna andare oltre i fatti, per capire le ragioni, oltre il visibile per intuire l’invisibile. Se vogliamo ritrovare risposte nella complessità della storia dobbiamo ascoltare anche le memorie degli altri. È, infatti, la logica della contrapposizione che ha determinato il fallimento della Commissione stragi e se non risolviamo questo nodo, la memoria continuerà a pesarci», conclude Milani ricordando la fondazione, a Brescia, della “Casa della Memoria” e l’inaugurazione, il 15 gennaio scorso, del percorso cittadino articolato in 441 formelle con incisi i nomi degli altrettanti morti per il terrorismo».
Ricordare per non commettere gli stessi errori
Parole condivise da Agnese Moro che parla di una generazione, la sua (lei nata nel 1951 e Saronio nel ’49) rimasta «muta» forse proprio per l’orrore di misurarsi con anni terribili. «La violenza non toglie solo il respiro alle vittime, ma ogni volta che restituiamo loro vita, parole, carne, sentimenti, pensieri, contrastiamo la violenza. Occorre guardare serenamente a quello che siamo stati, vedendone il bello e il brutto, perché anche nella violenza agìta c’è una lezione da imparare. Io mi spavento quando sento dire che la memoria degli anni di odio, deve essere solo quella delle vittime. Se accettiamo passivamente di vedere in mare tante persone che sono come noi, stiamo rifacendo gli stessi errori anche se li chiamiamo in un altro modo. Laddove l’essere umano, ogni essere umano, non è sacro si torna inevitabilmente a quella visione per cui l’altro può essere ridotto a una divisa, a un bersaglio, a una cosa. Il ricordare è un tema di oggi e non di ieri».
«Oggi si è chiuso il cerchio di questa “operazione radici”», ha spiegato, al termine, padre Masolo che con la cugina Marta Saronio ha riportato alla luce la vicenda dello zio materno. «Abbiamo lavorato per sanare le piaghe, per prendere le nostre ferite in mano e cercare di purificarle». Così come si è fatto con la “Tenuta San Marzano Mercurina” in Lomellina, appartenuta alla famiglia Saronio, rigenerata dalla Fondazione Darefrutto, di cui Masolo è presidente onorario. Tenuta che ora è un’oasi naturalistica aperta a tutti, con progetti di rilevanza culturale e sociale. «Un frutto prezioso nel quale prosegue la storia di Carlo Saronio».
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