Assuefatti, fino all’insensibilità. Quasi ogni giorno la televisione ci informa con impassibile distacco che al largo della Libia o lungo le coste della Turchia sono affogate altre persone – trenta, cinquanta, cento, di cui la metà bambini – e noi niente, neanche un sopracciglio alzato. Come se avessero appena annunciato tempo stabile al meteo, o la nuova promozione di una catena di supermarket. Di cui ci importa poco o nulla, appunto. Ci abbiamo fatto il callo, alla tragedia.
E invece la mostra in corso alla Triennale di Milano mette i brividi. Una salutare scossa che scorre sotto la pelle, dalle punte dei piedi alla radice dei capelli, e che ti dice che sei ancora vivo, non ancora del tutto abbruttito dall’abitudine al male, dal disinteresse per l’altrui sofferenza. E non si parla soltanto di “emozioni”…
La Terra inquieta è il titolo, ispirato a una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Édouard Glissant, della rassegna promossa dalla Triennale stessa e dalla Fondazione Trussardi. Un’inquietudine che attraversa i continenti, che scuote i popoli, che erutta, inarrestabile, come una colata lavica dalle regioni più fragili e tormentate del pianeta, o come il sangue da ferite profonde. Una tensione antica come il mondo, perché quell’età dell’oro vagheggiata dagli antichi, di pace e universale prosperità, in realtà non c’è stata mai. Mai, almeno, da quando i biblici progenitori dovettero lasciare le delizie dell’Eden…
Oltre sessanta artisti di più di venti Paesi, di tradizioni, culture, religioni diverse, sono stati invitati a esprimersi sulle trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la nostra storia. Affrontando, in particolare, i temi della migrazione, dei profughi, della fuga da guerre e carestie, e dell’impatto che tutto questo ha sul mondo occidentale, ovvero sulle nostre “coscienze”, ma visto e considerato soprattutto con lo sguardo di chi parte, di chi spesso è costretto ad affrontare la drammatica avventura di un viaggio gravido di incognite e di pericoli.
Si percorrono le sale, si osservano le opere appese ai muri o si gira attorno alle installazioni, sempre immersi in una colonna sonora di voci confuse, grida disperate, dolci canti, preghiere di mille lingue per lo più sconosciute, come una marea liquida che ti bagna le membra, e ancora più dentro, fino a toglierti il fiato, fino a toccarti l’anima. Tanto da sentirti naufrago tra i naufraghi.
I loro volti ti fissano dalla parete. Facce sconvolte, rassegnate, inebetite, tristi, adirate, straziate, rigate di lacrime, cotte dal sole. Ritratte in una quarantina di foto che Xaviera Simmons, trentenne di New York, ha posizionato come una specie di mosaico, vivace nei colori, terribile per situazioni.
Uomini e donne che si sono gettati tra i flutti del Mediterraneo (“Mare Nostrum” che, con un unico scarto consonantico, diventa “Mostrum” nell’insegna luminosa di Runo Lagomarsino), spinti dalla necessità o dall’illusione di una vita migliore, dai moderni negrieri o da un’intima disperazione. Sì, l’assenza di quella “speranza” che si ritrova nel lavoro dell’algerino Adel Abdessemed: un barcone, una delle tante zattere malmesse usate dai profughi, strabordante di sacchi neri di immondizia. Tanto valgono i sogni di quei marinai forzati. Tanto sono considerate le loro vite. Nient’altro che immondizia.
Anche il grande collage di Thomas Hirschhorn sembra un mare. Un mare di ricordi, dove alle rovine antiche del Colosseo si sovrappongono e si mischiano le immagini delle macerie odierne della città di Aleppo in Siria, sotto una pioggia di piccole monete che sembra evocare i flagelli apocalittici delle sette trombe. Cosa rimane, sembra chiedersi l’artista svizzero, dell’antica civiltà di valori condivisi, che univa in un comune orizzonte di bellezza il foro romano con le vestigia di Palmira, sulle quali, non a caso, si sono accaniti i distruttori dell’Isis?
Una sgangherata Fiat Panda è stipata di borse e varie masserizie, compresi libri, una sdraio e una bicicletta. Potrebbe essere la macchina di chi sta facendo un trasloco “fai da te”. O di chi deve abbandonare in fretta e furia la propria casa e il proprio paese. L’auto, in effetti, è quella di Manaf Halbouni, nato a Damasco nel 1984. Dalla Siria era già fuggito una decina d’anni fa, trovando rifugio in Germania, lui che è di madre tedesca. Eppure adesso è come se si sentisse costretto a fuggire ancora. Di fronte all’ondata xenofoba che monta in Europa, all’odio per tutto ciò che è “diverso”. Nowhere is Home è dunque il titolo di quest’opera: nessun luogo, ormai, è casa mia.
I migranti vengono chiamati in tanti modi. Profughi, esuli, transfughi. Ma anche clandestini, stranieri, extracomunitari. Quando non vengono additati come ospiti indesiderati, invasori, criminali. Come se riconoscere dignità a un uomo possa togliere qualcosa a qualcuno. Ma migranti e non migranti restano connessi fra di loro. «Quando i diritti dei migranti sono negati, i diritti dei residenti sono a rischio», si legge infatti nel manifesto del Movimento internazionale dei migranti, affisso nell’ultima sala della mostra. Perché la dignità non ha nazionalità.