Le parole di pace di oggi e quelle di 60 anni fa, ma attualissime, di un papa Santo come Giovanni XXIII nella sua ultima Enciclica, Pacem in terris. Si apre così l’atteso Convegno Mondialità 2023, promosso dagli Uffici diocesano per la Pastorale Missionaria e dei Migranti e da Caritas Ambrosiana, sul tema «Beati i costruttori di guerra? Il 60° di Pacem in terris ci sfida a diventare artigiani di pace».
Nella splendida Sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi, tanta gente e oltre 500 persone collegate per la diretta streaming sul canale youtube della Chiesa di Milano: tutti molto attenti nel seguire, per oltre tre ore, brevi video con interviste a gente comune, gli interventi dell’Arcivescovo, di prestigiosi relatori e di operatori impegnati in terre di conflitti dimenticati. A moderare l’evento, l’inviata del quotidiano Avvenire Lucia Capuzzi.
«Siamo qui per adempiere il compito che indicano la Pacem in terris e l’Enciclica di altro Papa santo, Paolo VI, la Populorum progressio. Da qui parta un grande impegno di preghiera e l’anelito per la pace», dice in apertura, monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione sociale, richiamando l’appello per la pace dell’Arcivescovo (che si potrà sottoscrivere da domenica 26 febbraio – leggi qui).
L’intervento dell’Arcivescovo
«Forse l’umanità è oggi come traumatizzata, non parla più, non sa più camminare e organizzare i suoi movimenti. La riabilitazione richiede una dedizione molto lenta, un esercizio di pazienza e anche che il malato ci creda, che impari a parlare perché ha qualcosa di dire a qualcuno, a camminare perché ha una direzione da prendere. L’umanità non sa più dire la parola pace e, allora, siamo chiamati alla riabilitazione: la pace è una guarigione – spiega l’Arcivescovo -. Credo che sia realistico ritenere il nostro servizio come una riabilitazione, facendo un passo per volta, cercando gli altri come fratelli e sorelle. Penso che questo tempo ci chieda di essere artigiani della pace, uomini e donne che amano la gente e la vita, che hanno una fiducia tenace, intelligente e lieta, che soffrono per le sofferenze degli altri. Uomini e donne che apprezzano la sapienza e l’informazione intelligente, che hanno fede e sono sempre in cammino e che, perciò, pregano e invocano Gesù, il principe della pace. Gente che ha stima di sé e degli altri, anche di quelli che credono in principi opposti con l’audacia di volerli avvicinare, magari pagando caro il presentarsi inermi a chi è armato. Provo gioia nel pensare che la schiera degli operatori di pace continuamente si rinnovi e che ne esistano dappertutto».
Da qui l’appello: «L’azzardo di credere alla pace, nonostante il vocabolario ordinario sia oggi aggressivo e depressivo, è l’impegno che noi prendiamo. Voglio invitare la Diocesi e tutti a vivere questa Quaresima con una particolare intenzione di conversione, di penitenza, di preghiera per la pace. La guerra si risolve con la continua determinazione di operatori che, dal basso, credono che sia possibile la riabilitazione dell’umanità e che sia possibile essere felici. È il pensiero che vogliamo seminare perché produca frutto».
Espressioni, queste, che hanno suggellato l’incontro, avviatosi con la relazione introduttiva di padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore de La Civiltà Cattolica, sulla politica estera al tempo di papa Francesco.
La pace secondo Francesco
«Nel 2013, il Papa, per la prima volta, parlò di un ospedale da campo quale immagine metaforica della Chiesa. Quella che aveva davanti gli occhi era già “la terza guerra mondiale a pezzi” e voleva rimettere insieme questi tanti pezzi, soprattutto quelli invisibili, come accade nel continente africano. Lui guarda alla gente, così parla della martoriata Ucraina, ma insieme delle mamme russe con i figli che muoiono in guerra», sottolinea Spadaro, che aggiunge: «Francesco è stato definito rivoluzionario, marxista, populista, irrilevante, ma per lui non è un problema, perché quando entra nelle questioni di politica internazionale è sempre molto chiaro e preciso, mettendo Cristo al centro del mondo. Bergoglio è un leader spirituale che sa di attraversare tempi di crisi, non è un pacifista, ma vuole capire come risolvere il conflitto. E la parola più adatta che delinea la sua visione del mondo è crisi, un fenomeno che investe tutto e tutti, coinvolgendo la politica, la tecnica, la religione, l’economia e l’ecologia. Ma la crisi, letta con realismo, non può che aprire alla speranza, pur nella consapevolezza del male, che esiste e che è ineliminabile. Per questo ha parlato di una diplomazia della Misericordia e delle ginocchia, alludendo alla preghiera che può neutralizzare tale male. Francesco intende capire l’origine dei conflitti, non considerando mai niente e nessuno come definitivamente perduto nei rapporti tra le nazioni».
Con questa comprensione delle cose, secondo il gesuita, l’immagine di San Pietro si sovrappone a quella di San Francesco, smantellando per sempre il ruolo imperiale del papato, ma non cadendo nemmeno nel «donchisciottismo»: «Francesco, come ha scritto il New York Times nel 2018, è l’antiuomo forte, in un’epoca dove gli uomini forti sono ovunque. Solo una Chiesa che rigetta ogni compromesso con il potere politico, potrà avere un ruolo: la pace sociale e l’inclusione dei poveri, temi cardine della sua visione, permettono un’immagine di pace che non è l’obiettivo da raggiungere, ma il presupposto di ciò che va realizzato».
Nel mondo 169 conflitti
Da parte sua, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ricorda i «169 conflitti «aperti sulla faccia della terra», che il suo giornale ha voluto raccontare con articoli per tre mesi consecutivi: «Guerre fatte in tanti modi, antichi e nuovi, con solo quattro conflitti tradizionali tra Stati, 69 tra Stati e pezzi della società civile, e tutti gli altri combattuti in modi differenziati, come per le guerre estrattive, le guerre dei narcotrafficanti, i conflitti tra bande criminali. I burattinai di tutto questo sono quelli che piazzano armi ovunque. Basti pensare che, negli anni del Covid, è aumentato il commercio di armi, con un bilancio che, per la prima volta, ha superato i 2000 miliardi di dollari».
Che fare, allora? «Dobbiamo abbandonare la convinzione che noi occidentali siamo sempre dalla parte della giustizia», scandisce Tarquinio, invitando a investire sull’impegno, per esempio, dei resistenti russi non violenti, di cui indossa il tradizionale nastrino verde sulla giacca: «Basta nel dire che la guerra è l’unica soluzione alla guerra. Il cainismo e l’iniquità sono le basi della guerra. La speranza è che qualcuno rompa lo schema del bipolarismo sotto l’ombra dell’America e della Cina. Serve una terza forza, che avrebbe potuto essere l’Europa. La verità e l’amore non sono cose da anime belle – amore oggi evocato dalla parola fratellanza della Fratelli tutti -, ma sono i pilastri della pace».
Le Nazioni Unite
A riflettere sul ruolo delle Nazioni Unite, dove è stato funzionario per molti anni, è Sandro Calvani: «Cinquantuno furono i Paesi fondatori che vollero l’Onu per conversare, come disse il presidente americano Truman. Oggi sono 193, ma 50 rimangono fuori, perché non riconosciuti dagli altri e molti conflitti, non a caso, nascono in quelle terre. Tanti dicono che le Nazioni Unite sono parte del problema», continua Calvani, che definisce l’organismo «un condominio molto litigioso, dove 275 volte in questi anni Stati membri hanno invaso altre terre dimenticando il trattato che avevano firmato».
Ulteriori problemi, poi, «sono le menzogne che si dicono, la cronica mancanza di fondi – l’Italia contribuisce con 170 milioni di euro, meno di quello che costa la polizia locale a Milano -, le questioni legate alla rappresentanza e al diritto di veto». «Attualmente una ventina di gruppi stanno studiando una riforma delle Nazioni Unite, con l’Italia che è parte del più numeroso e vi sono 5 milioni di progetti in giro per il mondo. Non basta costruire la pace, ma occorre gestire i beni comuni globali da salvaguardare con mandati veri e questo non è mai stato fatto. Non si può essere amministratori di un condominio litigioso che non vuole essere amministrato bene. Bisogna riformare il potere globale, insegnando ai nostri piccoli a essere cittadini del mondo. Facciamo vedere il volontariato, i Caschi Bianchi, i missionari, i laici, i giovani del Servizio civile internazionale e vi sarà una luce che può irradiarsi anche da queste nostre terre».
I testimoni
E le tre testimonianze che seguono, nel secondo panel del Convegno, sembrano appunto la prova concreta e incarnata di ciò che i relatori sostengono.
A partire da padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano, da trent’anni nella Repubblica Centrafricana, che racconta di un Paese «grande due volte l’Italia, che vive in guerra dal 2012 e dal 2014 con un conflitto vero e proprio. Una Nazione fragile, dove da qualche mese il Presidente sta cercando, anche in modo non legale, un terzo mandato non previsto dalla Costituzione. Paese che si era rivolto alla Russia come alleato e dove, così, è arrivata la Brigata Wagner schierata contro i ribelli, ovviamente non a costo zero, per cui il Centrafrica si sta impoverendo sempre più. Eppure non mancano – dice sorridendo il missionario – segni di speranza e riconciliazione».
Marta Aspesi, operatrice di Caritas Ambrosiana, parla della difficile situazione ad Haiti, dove ha vissuto con suor Luisa Dell’Orto, Piccola Sorella del Vangelo, che aveva fondato “Kai Chal”, una casa per dare istruzione e un luogo sicuro a tanti bambini schiavi, uccisa a Port-au-Prince il 25 giugno 2022 (leggi qui): «La Casa rimane e questo è un germoglio di pace», evidenzia.
Infine Francesca Benigno, desk officer di New Humanity International, grande conoscitrice della situazione nel Myanmar. «Un Paese sparito dalle cronache, ora in stato di guerra civile (dopo il colpo di Stato del febbraio 2021) con più di un milione di sfollati interni. Il sistema bancario è collassato, dilaga l’emergenza educativa per i bambini e ragazzi espulsi dalla scuola se figli di disobbedienti civili, le chiese e i conventi vengono bombardati solo per aver ospitato gli sfollati, ma nessuno ne parla più».
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