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Family 2012

Guzzetti: «L’uomo, vero
e unico capitale da salvare»

Una riflessione del presidente della Fondazione Cariplo sulla centralità della famiglia all’immediata vigilia dell’Incontro mondiale di Milano

di Giuseppe GUZZETTI Presidente Fondazione Cariplo

27 Maggio 2012
Giuseppe Guzzetti

Per molto tempo abbiamo assistito a un dibattito sulla famiglia che non ha suscitato l’impressione di volerla sostenere, bensì di contrapporla a forme o modelli di diversa natura. A cominciare dal fastidioso vezzo di voler per forza collocare tutto e tutti in una sorta di classifica; ancora oggi siamo alle prese con discussioni inutili sulle famiglie di ieri e di oggi, nel tentativo di stabilire se le prime siano meglio delle altre o viceversa; se quelle moderne siano più valide di quelle di una volta perché aperte ai cambiamenti che questa fase storica rende rapidissimi e continui; e ancora nel voler rigidamente differenziare tra famiglie italiane e straniere, come qualche tempo fa si usava fare con quelle del Nord e quelle del Sud.

Credo che un messaggio importante che Sua Santità, Papa Benedetto XVI, porterà a Milano con la sua visita, nell’ambito del VII Incontro mondiale delle Famiglie, sia quello di ribadire la centralità indiscutibile della famiglia all’interno della nostra società, un fattore ineludibile e al tempo stesso preziosissimo che va difeso e sostenuto da tutti, perché tutti siamo e abbiamo una famiglia. Un concetto semplice quanto ovvio che spesso viene dimenticato.

Il nostro sistema oggi non è organizzato e strutturato per favorire questa crescita. Le famiglie – già duramente colpite dalla crisi non solo economica, ma sociale e valoriale – non possono fare a meno di lavorare (fin quando il lavoro c’è).

Madri e padri. L’occupazione femminile tanto auspicata e per il momento ben al di sotto degli standard europei è una chimera avvolta in contraddizioni: vogliamo che le donne lavorino di più così per far aumentare la delega ad altri nell’educazione dei figli? Oppure vogliamo che le donne possano lavorare all’interno di un sistema di welfare evoluto che consenta loro una flessibilità e un equilibrio capace di bilanciare un impegno gravoso come la crescita dei figli con l’occupazione in ambito professionale?

Qui la crescita del Capitale umano nel seno di ogni famiglia si scontra con politiche sociali e del lavoro inadeguate, nel nostro Paese. Se il perno di tutto è l’uomo, se l’uomo è il vero e unico capitale umano da salvare, prima ancora di salvarlo sarebbe opportuno provare dunque a non sabotarlo. Nella nostra cultura consumistica dominano la transitorietà e la soddisfazione immediata del desiderio a discapito della durevolezza e quindi della stabilità e della conquista del desiderio, con la conseguente emarginazione di coloro che non riescono a stare al passo. I nostri figli, nipoti, i nostri ragazzi soffrono per questo. Che capitale umano possiamo far progredire in un contesto del genere? Anche ammesso, dunque, che siamo in grado di crescere bene i nostri giovani, di fatto il passaggio dalla formazione al mondo del lavoro, oggi, rappresenta per loro una sorta di baratro.

C’è poi un capitale umano più logorato, di antica data di cui oggi sembra che abbiamo deciso di fare a meno: i cinquantenni e gli anziani. I cinquantenni – che dovrebbero rappresentare l’esperienza maturata su cui innestare l’entusiasmo e la forza dei giovani successori – vengono spazzati via dalla necessità di epurazione del mercato dai pesanti fardelli dei costi fissi. Il che non significa che non vi sia bisogno di fare largo ai giovani, ma di fare in modo che questi vengano diligentemente accompagnati nel gestire via via responsabilità più pesanti. Un tesoro gettato al vento, che provoca, nel lungo periodo, gravi danni all’economia del Paese, e, a breve termine, danni spesso irreparabili alle famiglie, lasciando sul campo frustrazioni e un esercito di persone che cerca di ricollocarsi a fatica.

Anche gli anziani rappresentano un capitale inutilizzato: nelle società fondate su culture che coltivano il rispetto per l’esperienza sedimentata, per la Terza Età, essi riescono ancora a ricoprire un ruolo importante, pur non invasivo, nell’offrire stabilità. Oggi la nostra società vede gli anziani in due modi: o come pesanti fardelli o come insostituibile manovalanza da impiegare nella cura dei nipoti a tempo pieno, attività che essi svolgono o con orgoglio, ma che snatura il ruolo dell’anziano che deve essere mentore, guida, non operaio.

C’è un uomo da salvare, per chi crede, è non su questa terra, ma oltre. L’uomo che sbaglia, l’uomo che cade in errore, che si allontana dalla morale, nei diversi ambiti della sua vita: dalla famiglia, al lavoro. Questo uomo è il risultato di quello che prima abbiamo definito come prodotto dell’educazione quotidiana e del modello di vincente a cui miriamo e facciamo riferimento. Quel modello che porta a cercare sempre di più, sempre più in fretta, fino a svuotare si significato ogni successo, negli affetti e nel lavoro.

L’uomo che si arricchisce, a danno degli altri, non comprende che sta impoverendo la sua comunità, che prima o poi gli chiederà il conto, sul piano pratico, e sul piano morale. L’uomo che tradisce gli affetti genera danni che – come la plastica su una spiaggia – sembrano sotterrati, ma impiegano anni per essere assorbiti, al prezzo di procurare spesso altri danni a catena. È quell’uomo che è cresciuto – da bambino, poi da giovane e da adulto – in un sistema che non ha puntato sulla crescita del Capitale Umano, ma ha deciso di idolatrare il successo promuovendo un modello di vincente che alla fine fa perdere tutti e non salva nessuno.

Nelle nostre famiglie di oggi c’è un po’ di tutto questo, così come in maniera diversa c’era anche nelle famiglie di ieri. Eppure non perdo la fiducia, perché ieri come oggi vedo padri e madri lottare. A volte però lottano senza che il mondo intorno sembra ascoltarli. Quel mondo che è fatto a sua volta da padri e madri paradossalmente nelle stesse condizioni.