«Maria, per imitare il suo cantico e la sua vita; amen, per rispondere alla propria vocazione; alleluia, per essere il popolo della gioia». Queste le tre parole che l’Arcivescovo ha lasciato, «come programma» ai membri delle Comunità migranti cattoliche riunite, con i loro ministri del culto, nella Basilica di Santo Stefano a Milano, per un momento di riflessione e di augurio natalizio. Un appuntamento ormai tradizionale, ma che per la prima volta (dopo essersi svolto negli ultimi anni pre-pandemia nella Basilica di Sant’Ambrogio in occasione del Discorso alla Città) è stato vissuto in maniera più distesa nella parrocchia personale delle comunità straniere, con la presenza di molti fedeli, l’ascolto della Parola di Dio, i canti tipici e l’animazione liturgica in più lingue.
Così come ha ricordato don Alberto Vitali, responsabile dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti, aprendo la serata, alla quale ha partecipato anche il vicario episcopale di Settore, don Mario Antonelli. Accanto all’Arcivescovo il diacono permanente peruviano Felix Juarez. «Per noi è un momento importante, perché non solo abbiamo l’occasione per pregare con il nostro Vescovo, ma perché possiamo portare qui le fatiche di Paesi in guerra, come l’Ucraina o come la dimenticata Eritrea, e dire ancora una volta che la pace è l’anelito più profondo degli uomini», ha spiegato Vitali.
Le tre parole su cui riflettere
Del «bisogno di essere presente nel momento in cui le comunità cattoliche si riuniscono per pregare e per testimoniare la loro azione a essere Chiesa dalle genti, che è il nostro modo di intenderci Chiesa», ha parlato anche monsignor Delpini, aggiungendo: «Mettiamo in comune le gioie, ma anche le distanze, le ingiustizie, le guerre, i nostri Paesi con le loro angosce. Vorrei esprimere il mio augurio nelle vostre diverse lingue, espressione di un popolo, di una terra, ma, non conoscendole, esprimo solo alcune parole che riassumono il messaggio del mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio». Quel Natale che «non è la commemorazione di un evento lontano millenni, magari colorato di tanti bei sentimenti e ricordi dei Paesi da cui veniamo, ma è una vocazione, perché il Signore ci chiama». Da qui – nel riferimento al brano evangelico di Luca con il Magnificat di Maria, appena proposto all’assemblea – l’indicazione del cammino da compiere, specie in questi giorni, attraverso tre parole-guida «facilmente comprensibili da tutti».
La prima è appunto Maria, «la madre, la donna del Magnificat, che dice lo stupore e l’esultanza per lo sguardo che il Padre ha rivolto su di lei. Maria è la donna che ci può insegnare la gioia», con un cantico, il Magnificat, che «contiene anche il principio rivoluzionario dell’opera di Dio nella storia, che sta dalla parte degli affamati, degli umili, dei popoli oppressi. Il mio augurio è che noi tutti siamo capaci di cantare e vivere il Magnificat».
Poi, la parola amen che significa “sì, eccomi”. «Se il Natale è una vocazione, noi diciamo amen per diventare uomini e donne secondo l’umanità di Gesù, vivendo il suo stile, condividendo i suoi sentimenti, imparando a pregare da lui. Occorre dire sì alla vocazione con la quale il Signore ci chiama oggi e che, magari, abbiamo già riconosciuto e stiamo vivendo attraverso il matrimonio, le forme della vita consacrata o di un impegno personale. Il Natale è l’occasione per dire ancora amen».
«La terza parola – conclude l’Arcivescovo – è antica, straniera, ma la usiamo molto spesso: è alleluia, la gioia che ci fa cantare, celebrare, danzare. Questo è l’augurio per voi, per tutte le comunità che rappresentate, per me».
Infine, prima del breve momento conviviale, la benedizione solenne, il dono da parte dell’Arcivescovo della sua immaginetta natalizia, il saluto personale alle singole comunità – filippina, cinese, coreana, srilankese, ucraina, polacca di rito latino, sudamericana, brasiliana ed eritrea – che portano all’altare loro doni tipici, come il pane natalizio ucraino.
Leggi anche: