In occasione della visita pastorale alla Città di Milano, sua Ecc.za Mons. Mario Delpini ha incontrato i giovani del Decanato Niguarda-Zara, con cui ha condiviso degli spunti suscitati dalle loro domande, tra vocazione, testimonianza e missione, la Chiesa, le complessità del mondo odierno, per accompagnarli in una crescita continua e autentica, per immaginare insieme la Chiesa del futuro, che inizia già qui
Sara
Cainarca
Servizio per i Giovani e l'Università
Nella sera di martedì 2 maggio è avvenuto l’ultimo incontro delle “Serate Giovani e Vescovo”, appuntamento dedicato ai giovani all’interno della Visita Pastorale alla Città di Milano, che volge in questo mese al termine. È stato dunque un momento di raccoglimento e raccolta, incontro in cui sono riemerse alcune parole già intercorse durante altri scambi tra l’Arcivescovo e i giovani milanesi, parole che stanno a cuore tanto ai secondi quanto al primo.
VOCAZIONE. Nel contesto culturale attuale, si tende a rimandare quelle scelte di vita radicali e definitive: come scoprire, scegliere e sostenere nel tempo un’autentica vocazione al “per sempre”? Questa è stata la prima domanda posta all’Arcivescovo, che, aiutandosi con una metafora, ha tratteggiato in modo chiaro una modalità per guardare a questa grande tematica. “Il cammino della vita si presenta come un sentiero di sassi scivolosi, insidioso. I giovani sentono di essersi preparati ad affrontare il percorso che li attende, ma forse con una preoccupazione tale per cui si sono caricati di uno zaino troppo pesante” – consigliati anche da altre voci adulte – senza invece fermarsi nel mezzo delle frenesie quotidiane per provare a “geolocalizzarsi” e trovare le coordinate per compiere passi rivolti verso una meta autentica. Preoccupati di andare avanti e procedere, ci si è scordati di porsi una piccola fondamentale domanda: andare, ma verso dove? “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” scrive lapidariamente Seneca in una delle epistole al suo discepolo. Altri giovani, invece, ricorda l’Arcivescovo, si sono forse fermati, come in un parcheggio o in un porto, senza nemmeno salpare.
Né uno né l’altro atteggiamento corrispondono a quanto suggerisce il Vangelo. Ne ricorda un episodio, sottolineando alcune parole: “Gesù, passando, vide un uomo, chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: “Seguimi”” (Mt 9, 9). Gesù vede, guarda ciascuno, guarda proprio te e ti propone di alzarti e seguirlo. “Egli vede oltre ogni cifra, voto, giudizio e diploma. Vede il cuore e la sete dell’anima, i sogni, le inquietudini”. Prosegue l’Arcivescovo: “Credo che Dio abbia creato l’uomo perché potesse ergersi e stare in piedi e camminare per guardare davanti a sé e persino in alto, per guardare il cielo”. E così una voce sprona, una voce smuove: “Seguimi!”. Vocazione è la parola che mi dice un altro, che mi richiama ad alzarmi lì dove mi sono seduto, inquieto o affranto o disorientato o appesantito. Vocazione è alzarsi innanzitutto per seguire Gesù, nella fede e nella relazione con Lui, amico fedele. Allora ecco che quel “per sempre” inizia da un punto ben preciso: un incontro, che si fa voce e ascolto, dialogo, cammino insieme.
Alleggerito un poco lo zaino, affinata l’attenzione per cogliere le proposte che invitano ad alzarsi e mettersi in cammino dietro a Qualcuno, senza vagabondaggi, ricordata con fiducia l’amicizia che offre Gesù, è necessario tenere a mente e fare buona pratica di alcune altre indicazioni messe a punto dall’Arcivescovo. In questo cammino scivoloso e incerto è fondamentale la compagnia di qualcuno: “capisco quel che penso quando lo dico ad un altro, le domande fanno meno paura se le condivido con qualcuno, se c’è una presenza amica e saggia che mi accompagna”. In concomitanza a ciò, lo sguardo di Gesù e la sua parola per me, la sua attenzione e la chiamata che mi rivolge personalmente, “mi autorizzano ad avere stima di me, fondamentale nella relazione con se stessi e nella ricerca sincera della propria vocazione, sapendo che non sono perfetto, ma qualcuno mi vuole bene proprio così come sono”. Con queste intuizioni nel cuore, “il dinamismo di una vocazione sta poi in un amore che accende, un ardore che rende entusiasti” e che fa compiere uno dopo l’altro gli altri passi del cammino.
TESTIMONIANZA. Un altro interrogativo che abita il cuore dei giovani è quello suscitato dal fatto di sentirsi spesso, nella quotidianità, limitati dai contesti nei quali si è inseriti e incerti, con fatiche, dubbi, nell’essere testimoni autentici della propria fede. Cosa rende cosi timidi i giovani – e i cristiani in generale – a testimoniare la propria fede?
Lo sguardo dell’Arcivescovo sembra consapevolmente nitido ed anche carico di fiducia. Certo, non è raro che i contesti odierni guardino con disprezzo i cristiani, creando un clima paralizzante. Tuttavia, riconosce che talvolta i sentimenti dei coetanei nei confronti dei giovani credenti sono la stima e l’ammirazione, anche tra una battuta e l’altra. Partendo dall’apertura e dal continuo incontro quotidiano con i propri luoghi di vita, anche custodendo e lasciandosi interrogare dai propri dubbi, ciascuno può condividere “quel poco che ha”: una speranza, una promessa di gioia e i pochi pani tra le mani, che basta poi mettere lì davanti a Gesù e a chi incontro. “Tra i dubbi, la certezza che si rinnova e resta è che Gesù era morto ed é risorto”. È importante saper ricordare la ragione fondante, l’argomento centrale che può sostenere “l’essere contenti di essere cristiani”, di cui spesso ci si scorda ma che è la primaria ed essenziale testimonianza di chi ha incontrato Cristo.
Che cosa poi può sostenere questo cercare di essere testimoni, che si gioca nella quotidianità di uno stile di vita cristiano, da riscegliere e confermare ogni giorno? Sono tre i suggerimenti proposti: il sapersi e sentirsi destinatari di una missione, affidataci da Gesù (“Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” Mc 16, 15); l’amicizia, rapporto bello e gratificante, che non rinchiude in una cerchia, ma fa desiderare cose grandi insieme, così che sostenendosi e stimandosi ci si apra a passi di crescita, facendosi coraggio, senza più sentirsi abbandonati e persino coinvolgendo altri; la preghiera, segno che gli altri mi interessano e che mi sta a cuore la loro gioia, per cui li affido al Padre.
INCERTEZZE E DOMANDE. Nel testimoniare la propria fede cristiana, rimanendo fiduciosi sulla via di Cristo e camminando tra dubbi e incertezze, dei sentimenti che emergono sia nella propria esperienza personale sia nel mondo intorno a noi sono quelli attanaglianti e talvolta paralizzanti del dolore e della sofferenza. La domanda risuona chiara: come ci parla Dio attraverso la sofferenza? Ancora una volta, l’Arcivescovo invita a guardare e considerare il Vangelo, la vita di Gesù “vero uomo e vero Dio”. Ri-conoscendo Gesù e la sua storia, possiamo affermare che Dio è lì, proprio lì: in questo dolore e in questa sofferenza. Dio, per mezzo di Gesù, si è fatto uomo ed è morto in croce. Perché? Qual è stato ed è il senso di ciò? Il senso è proprio quello testimoniato da Gesù, che rivela il Padre e rivela il Suo amore per noi. Ecco, il senso di tutto, la risposta ad ogni dubbio: l’amore. Questo è il Credo cristiano. D’altra parte, da Gesù possiamo “imparare a evitare che certi luoghi comuni inquinino la Parola del Vangelo e quanto essa ci rivela”, nella sapiente consapevolezza che l’amore di Dio cui aspiriamo “gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.” (1Cor 13, 6-7). Dio non interviene nella sofferenza, ma accompagna ciascuno, come con Gesù, donando la forza dello Spirito per sostenerci nella scelta dell’unica cosa che merita di essere fatta: amare, sia quando è festa e gioia, sia quando è sacrificio e sofferenza.
I GIOVANI E LA CHIESA. Dopo le domande riguardanti la propria esperienza personale e i propri dubbi, un’ultima sollecitazione per l’Arcivescovo allarga l’orizzonte verso la Chiesa tutta: come si immagina la Chiesa tra 50 anni? Come possono porsi i giovani per sognare insieme e partecipare alla sua costruzione che avviene già ora, già qui? Le intuizioni dell’Arcivescovo vengono affidate a quattro immagini attinte dal Vangelo: Antiochia, Betania, il buon samaritano e le Beatitudini.
“La chiesa che farete sarà come la Chiesa di Antiochia” (At 11, 19-26), dove alcuni dei giudei divenuti cristiani iniziano a parlare di Gesù ai pagani, aprendo così realmente la Chiesa alla sua dimensione cattolica, per tutte le genti. Ecco: una Chiesa di cristiani che iniziano a parlare della Fede e testimoniarla a chi non è cristiano, in una missione, inizia lì ad Antiochia che continua.
L’intuizione suscitata dall’immagine di Betania è per una Chiesa che diventi una casa di amici, come Gesù sperimenta presso Marta, Maria e Lazzaro, dove egli è amico e maestro. Ecco: una Chiesa familiare che si ritrovi senza grandi eventi frenetici, che sia una dimora dell’amicizia fraterna.
Sarà poi una Chiesa di buoni samaritani che si fermano e danno una mano ai tanti volti dell’umanità ferita, ai caduti, a coloro che vengono scartati; uomini e donne che decidano e sappiano farsi carico delle ferite.
Infine, sarà una Chiesa che si ricordi della paradossale parola della Beatitudini: “beati i perseguitati”, e dunque “perseguitati i beati”, per cogliere una specie di beatitudine in questo esser guardati con disprezzo, beatitudine data dalla coerenza delle scelte, che forse oggi rende impopolari.
In che modo continuare a costruire insieme questa Chiesa? Due indicazioni chiudono l’incontro: ricordare ciò che muove tutto, e poi un “suggerimento di metodo”. Ricordare, tenere ben fisso nel cuore, ciò che ci tiene accesi e ardenti, cioè la promessa fatta da Gesù di una gioia piena. Mossi da ciò, affrontare ogni impresa adottando la “regola del metro quadro”: se mi indicano di rendere tutta la Pianura Padana un campo fiorito, mi sento scoraggiato; se invece posso dedicarmi alla cura di un metro quadrato di terreno, del mio metro quadrato, ecco allora che sento di potercela fare; se ognuno si occuperà con cura del proprio pezzetto, fiorirà tutto quanto un poco alla volta. Dunque, ecco che fare: continuare ad avere grandi ideali, desiderare un grande prato fiorito, ma iniziare l’opera dal metro quadro che mi è affidato, che ho accolto, che ciascuno ha accolto.