In occasione della visita pastorale alla Città di Milano, sua Ecc.za Mons. Mario Delpini ha incontrato i giovani del Decanato Forlanini-Romana Vittoria e ha ricordato loro l’importanza di vivere la vita come vocazione, che è anzitutto riconoscersi figli amati, liberi di scegliere di lasciar trasfigurare i propri desideri dall’Amore del Padre e ha suggerito le coordinate tramite cui i giovani possono orientarsi per camminare nella fede e nella scoperta autentica di sé e del senso della propria vita
Sara
Cainarca
Servizio per i Giovani e l'Università
Settimana scorsa, nella serata di giovedì 30 marzo 2023, è avvenuto il penultimo incontro delle “Serate Giovani e Vescovo” nel contesto dell’itinerario della Visita pastorale alla città di Milano, che ha visto il porsi in dialogo tra l’Arcivescovo Mario Delpini e i giovani dell’ampio Decanato Forlanini-Romana Vittoria. Le domande preparate dai ragazzi hanno spaziato da quesiti intimi e personali a riflessioni riguardanti la realtà attuale e la comunità cristiana.
Ad aprire il confronto è una domanda precisa e curata, segno dell’importanza che tale interrogativo ha per il cuore dei giovani oggi: come poter giungere alla conoscenza di se stessi, guardarsi dentro, ascoltarsi, senza rimanere sovrastati dalle emozioni che ci abitano? Come fare i conti con ciò che siamo veramente, che ancora non ci è chiaro? L’Arcivescovo coglie con serietà e delicatezza la questione e propone tre coordinate per orientarsi nel misterioso viaggio alla scoperta di se stessi e dei propri desideri. Anzitutto, la preghiera come dialogo con il Signore, luogo in cui portare le proprie domande e le proprie ferite, anche i propri peccati, costituivi nella ri-conoscenza di sé stessi, per riconciliarsi ogni volta e trovare unificazione, a partire dalla memoria di tutta la propria storia e delle esperienze fatte perché, ricordate, messe a fuoco nella luce della preghiera e in dialogo con le pagine del Vangelo, possano portare ad una sapienza fino a chiarimenti su di sé e nuovi slanci per la propria vita. Poi l’ascolto dei “rimandi oggettivi ed esterni” cioè sguardi e parole che gli altri hanno su di me, le valutazioni altrui che bisogna prendere in considerazione per accoglierle o per contestarle, senza ignorarle, poiché possono comunicare qualcosa, in cui riconoscersi o da cui prendere le distanze, e in ogni caso per volgerle alla costruzione della propria identità, anche perché possono mostrare ciò che a noi stessi sfugge o possono incoraggiare e dare quella fiducia che non riusciamo a dare a noi stessi. Infine, risulta fondamentale l’accompagnamento da parte di uomini saggi e donne sagge, adulti che aiutino a conoscersi meglio all’interno di una relazione di fiducia, affidamento, continuità, serietà e affetto. Un processo lungo, un cammino, un’avventura per fare verità su di sé: l’invito è quello di vivere la propria giovinezza come tempo per porsi domande e compiere scelte, ma senza frette e affanni, avendo pazienza con se stessi e con i propri limiti, avendo “fiducia nel tempo che è amico del bene” perché nel tempo può emergere il Bene che è in me, fino a pienezza ed unità. Nella speranza proposta dal Vangelo che “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce” (Lc 8, 17). Un buon consiglio a riguardo può essere anche quello che scrive R. M. Rilke in Lettere ad un giovane poeta: “Tu sei così giovane, così al di qua di ogni inizio, e io ti vorrei pregare quanto posso di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel tuo cuore, e tentare di avere care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere. E di questo si tratta: di vivere tutto. Vivi ora le domande. Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere un giorno lontano, la risposta”.
Anche la comunità è un luogo buono per imparare a conoscersi, confrontandosi con l’altro e con i valori che nella comunità e nelle relazioni si trasmettono. In particolare, i giovani che si dedicano al servizio per i più piccoli, come educatori in oratorio e guide scout, si interrogano su quali valori sono chiamati a testimoniare e trasmettere, nell’ambito di un’educazione cristiana. Due sono i valori fondamentali suggeriti dall’Arcivescovo, che li percepisce come dimenticati oggi e dunque per i quali è necessario avere cura: la speranza e la visione della vita come vocazione. Nel contesto odierno in cui la persuasione diffusa è che “le cose vanno male e domani andranno peggio”, i cristiani sono coloro che possono invece “testimoniare che abbiamo delle buone ragioni per desiderare il futuro”, sostenuti dalla speranza quale “idea che apre alla visione della vita non come enigma opprimente, ma come promessa fertile”, fondata sulla promessa di Cristo, della sua compagnia e della missione che fa della vita di ciascuno un dono: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 19-20). È la promessa di una Parola che oggi si può fare carne nella vita di ciascun credente, attraverso la testimonianza concreta delle vite di chi si mette in cammino verso il proprio futuro, con sguardo e passo fertile e generativo, nell’Amore del Padre. Da questa visione scaturisce anche l’altro valore ricordato dall’Arcivescovo, visione che a sua volta nutre la speranza: “la concezione della vita come vocazione, cioè la convinzione che non siamo al mondo per caso, ma perché qualcuno ci ha chiamati alla vita”. I nostri genitori ci hanno generato e Dio ci chiama ad essere suoi figli. Questa è la primaria vocazione cristiana, a volte caricata di pregiudizi. Vocazione non è chiamata ad un destino già segnato, ma chiamata ad una avventura nell’Amore di Dio Padre. L’avventura della vocazione consiste nel divenire consapevoli di ciò, del nostro essere figli amati; questo può renderci anche più simpatici a noi stessi, accrescere la fiducia in ciò che sogniamo, aiutarci a riconoscerci all’altezza di un amore e di una vita che chiamano alla pienezza. In definitiva, è banale immaginarsi la vocazione come predestinazione perché non lascia spazio a quella libertà accordataci da Dio; la vocazione è la chiamata a divenire “figli nel Figlio” cioè liberi, liberi di scegliere e di scegliere di lasciar trasfigurare i propri desideri da questo Amore. Da lì iniziano le vocazioni: dall’ascolto dei propri desideri, di ciò che ci piace e si desidera, da verificare poi con l’esperienza, con la concretezza della quotidianità, con lo sguardo altrui; poi vedere se quei desideri possono essere cristiani cioè se nel rispondere ad essi compio delle scelte che mi fanno amare come Gesù comanda di amare. È così che un desiderio diviene cristiano, diviene risposta vocazionale: quando l’amore che lo muove si fa amore di dedizione ed esso viene trasfigurato e portato a compimento.
Lo sguardo si amplia poi alla realtà attuale: come possiamo leggere la situazione che stiamo vivendo nel mondo di oggi, tra violenze, incertezze, contraddizioni? Qui è uno solo il riferimento a cui rimanda l’Arcivescovo: la Bibbia, il nostro testo sacro che può indicarci con quali linguaggi provare a leggere la realtà. Il primo linguaggio è quello della profezia, “l’invettiva profetica”, la parola semplice e tagliente che con coraggio contesta il male e la perversione che vede, così come i profeti hanno fatto nel passato, gridando e gridando ancora. Il secondo è quello della sapienza benevola, contenuta nei libri sapienziali e nei Proverbi, quale anche “buonsenso spicciolo” e parola ironica per cogliere sia il bene sia i difetti della condizione umana. Il terzo è quello del canto, della lode, del salmo, forme di poesia, manifestazioni di gioia e gratitudine, che invitano a leggere la storia e la realtà anche come luogo di festa, dove incontrarsi e fare comunione e comunità.
Le visioni proposte dall’Arcivescovo vengono infine racchiuse nella cornice delle parabole del Regno di Dio che viene, già qui, già ora, anche nella difficoltà che oggi sembra esserci per crescere nella fede e chiarire la propria vocazione. Il Regno che viene è quel seme, più piccolo tra tutti, che germoglia, cresce e diviene grande albero sotto cui riposare. Il Regno che viene è in ogni volto che incontriamo e nel quale possiamo riconoscere ogni volta un frammento del volto di Cristo e della sua vicenda, che rileva l’amore del Padre. È fondamentale dunque, alla base di tutto, il rapporto personale di ciascuno con Gesù, presente nel Vangelo e nell’Eucarestia, negli incontri, nelle esperienze, nelle intuizioni durante la preghiera. “Senza tale rapporto non vale la pena essere cristiani”. Sotto questa luce bisogna anche vivere la celebrazione eucaristica: che sia un incontro con la Parola che parla e risuona nei momenti di silenzio, con pazienza e passione.