Giovedì 27 febbraio l’Arcivescovo Mario Delpini ha fatto tappa a Siziano, in occasione della sua visita pastorale, incontrando i giovani del Decanato di Melegnano. Una serata di dialogo fraterno, la preghiera e la cena condivisa hanno dato la possibilità ai giovani di esprimere alcune domande che stavano loro particolarmente a cuore. L’Arcivescovo ha suggerito loro le coordinate per “cambiare il mondo” a partire dalla Parola di Dio
Letizia
Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università

Come trovare il senso alla propria vita, in un mondo che sembra correre e correre, senza preoccuparsi di chi sta indietro o forse semplicemente cammina a un altro ritmo, andando più in profondità?
Come aiutare chi non riesce più a intravvedere una luce? E ancora, la Regola di vita, può essere un valido strumento per fare “ordine”? Come si può scriverla, mettendo nero su bianco le proprie “buone” intenzioni?
E ancora… che testimonianza possiamo e dobbiamo dare come educatori? Anche se spesso i risultati non sono così soddisfacenti? Come recuperare il senso delle attività ed esperienze, anche belle, che si vivono?
Cosa si agita nel cuore di un giovane, che cerca il proprio posto nel mondo, non solo come progetto di vita e autorealizzazione dei propri desideri e aspirazioni, ma anche come impegno verso gli altri, coetanei, comunità e i ragazzi che, magari, sono loro affidati, in oratorio? Tante domande…
L’Arcivescovo Mario Delpini, anche nell’occasione della sua visita pastorale e dell’incontro con i giovani del decanato di Melegnano, non si è tirato indietro, rispondendo alle questioni preparate e aprendo alla riflessione. Per ogni domanda ha “assegnato” una pagina di Vangelo, evidenziando così il filo diretto, per un cristiano che si interroga su di sé e su quanto sta vivendo, con la Parola di Dio.
Apre il confronto la domanda di un giovane che, nella sua esperienza, sente che «il mondo è andato avanti, o meglio il mondo non ha aspettato uno come me, un ragazzo con i suoi pensieri e le sue difficoltà. Eccellenza, ancora una volta mi sembra che il mondo mi abbia lasciato indietro…». «Appena allargo i miei orizzonti al di fuori del mio piccolo giardino, vedo come a vincere sia sempre la logica dell’egoismo e della violenza. In città ci concentriamo su feste ed eventi piuttosto che aiutare i ragazzi e i giovani a risolvere veramente il cuore delle loro fatiche. Nel mondo le risorse di un territorio contano di più delle persone che lo abitano. Sento che il mondo dei potenti vuole lasciare indietro persone semplici come me». Ed ecco allora le sue provocatorie domande: «Perché credere in un mondo che non aspetta un ragazzo come me, solo perché mi fermo ogni tanto a pensare? Perché credere in un mondo che mi costringe a scegliere tra il mio futuro e ciò che mi fa bene? Perché credere in un mondo che mi incentiva alla violenza e non all’amore? Insomma, perché credere in un mondo che non crede in me?»
“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”, si legge nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.
«Tutti noi dovremmo sentire uno slancio di fierezza. La fierezza di dire che noi siamo originali», ha risposto l’Arcivescovo. Non dobbiamo valutare il mondo solo per i titoli dei giornali, concentrandoci solo sulle descrizioni problematiche di quello che sta succedendo. «Voi siete ragazzi e ragazze meravigliosi, voi dedicate del tempo agli altri, gratis, perché fa bene. Voi siete accompagnati da preti che dedicano a voi del tempo, perché sono contenti di farlo. La prima cosa che voglio dire è questa. Ecco, il mondo certamente appare come questa specie di treno che corre (l’università, un corso dopo l’altro, gli esami…) ma è realistico anche dire: guarda, qui ci sono dei ragazzi e delle ragazze come te, che sono appassionate di far qualcosa di bene, come tante persone e volontari che in città, nei paesi, si dedicano all’oratorio o ai malati o agli stranieri, all’ospedale e a tante realtà. Noi vediamo il mondo un po’ più da vicino e vediamo che è fatto di tante persone di buona volontà. Il mondo è questo: noi siamo quelli che preferiscono l’amore alla violenza. Noi sentiamo la responsabilità di cambiare Il mondo, perché il mondo è il campo della mia missione! E il mondo è da cambiare con le scelte singole, le scelte di ciascuno, le scelte del gruppo, le scelte della comunità, le scelte della Chiesa, le scelte degli uomini e delle donne di buona volontà. Noi siamo nel mondo per dire: noi preferiamo le persone alle cose, preferiamo i legami all’individualismo, preferiamo la cura all’indifferenza.
La seconda cosa è che noi sentiamo che noi siamo nel mondo per una missione, non per chiedere scusa se restiamo indietro in qualcosa perché ci dedichiamo anche ad altro, ma per una missione!»
Un’altra giovane descrive a tratti la sensazione di chi vede solo una totale oscurità, senza riuscire a intravvedere nemmeno un piccolo puntino di luce. Quindi una condizione in cui una via d’uscita sembra persino non esistere… Situazioni del genere sono più comuni di quanto si possa pensare e il motivo per cui a volte non ce ne si rende conto è che i diretti interessati convivono anche con la paura di sentirsi vulnerabili se mai dovessero parlarne con qualcuno. E qui nasce la domanda: «Come aiutare chi si trova in questo non vivere specialmente se, all’apparenza, ci fa sembrare che vada tutto bene?»
Al capitolo 2 di Marco c’è un racconto molto affascinante, la chiamata di Levi. Gesù passa, vede un uomo seduto, cioè una persona che si è assestata, che ritiene la sua vita una sistemazione: è seduto al banco delle imposte, cioè a raccogliere le tasse (un lavoro magari anche un po’ “antipatico”, però, pensa “cosa devo fare, questa è la mia vita”). Gesù passando vede un uomo seduto e gli dice: seguimi! E la cosa straordinaria è che lui si alzò e lo seguì. Gesù ha intuito che in quest’uomo c’era un’inquietudine – anche se sembrava sistemato, assestato – una disponibilità per alzarsi e camminare.
«Ecco quindi la mia proposta,- spiega l’Arcivescovo – a voi che magari siete educatori o amici di persone che vivono come fossero “assestate” nella disperazione. Fatevi voce di Gesù che chiama e dice “Seguimi!”, alzati in piedi, fai qualcosa che dia orientamento alla tua vita, non stare lì seduto al banco delle imposte. Come si fa a dire questa parola? Io credo che voi potete provarci. Non dico che tutti riusciamo a dire quella parola decisiva per ogni persona che incontriamo ma voi potete dire: vieni, c’è qualcosa di bello nella vita, vieni all’oratorio, vieni a far l’animatore, vieni a trovare i poveri, a visitare i malati, a distribuire pacchi con la Caritas, aiutare gli anziani… Le opere di misericordia sono quella parola attraverso la quale uno può alzarsi in piedi.
Ho l’impressione che con le persone “sedute”, assestate, rassegnate, annoiate, noi – con la scusa di essere rispettosi, discreti – siamo troppo timidi, troppo esitanti e diventiamo indifferenti. Proviamo invece a chiamare, invitare, fare proposte belle, a quel ragazzo, ragazza, compagno di università, di studi o di lavoro… Abbiamo una responsabilità!»
«Negli anni ho sempre visto diminuire il numero dei miei amici che vengono e frequentano l’oratorio…», dice un po’ amareggiato un altro giovane.
Al capitolo sesto di Giovanni, dal versetto 66, si parla del momento di fallimento di Gesù. “Molti dei suoi discepoli si tirarono indietro…”.
«Noi che siam dentro siamo abbastanza luminosi per far luce in questo buio che è la terra, noi che siamo rimasti perché siamo attaccati all’oratorio, alla Messa della domenica, al servizio ai più giovani, noi siamo abbastanza accesi, come una piccola fiammella che però può accendere tutte le candele della casa. La strada più cristiana per rispondere a questa domanda è essere luce, chi rimane ha la responsabilità di far luce per tutti gli altri! C’è una gioia nell’essere cristiani. Gesù non si preoccupa tanto dei numeri ma si preoccupa della libertà. Noi restiamo uniti a Gesù perché senza di Lui non possiamo avere speranza. Se siamo contenti possiamo dare testimonianza che vale la pena di stare con Gesù, seguirlo, stare nella comunità cristiana».
Nei temi che i giovani stanno affrontando, oltre a quello attuale del Giubileo, c’è quello della “Regola di Vita”, che più che mai riguarda i giovani, dal momento che si tratta di una vera e propria stesura, nero su bianco, delle tappe da seguire in un cammino di fede. Viene quindi chiesto all’Arcivescovo qualche consiglio e riferimento per una stesura efficace di questa “guida”.
«Nel capitolo 18 di Matteo, Gesù ha dato una specie di regola della comunità.
Per scrivere la Regola di vita ci vuole un interlocutore adulto che prepara il gruppo e dà delle indicazioni. Con il farsi da soli una Regola di vita si corre il rischio che uno scriva delle belle frasi, citazioni brillanti ma poco realistiche: la stesura della Regola ha invece bisogno di un accompagnamento, un interlocutore, magari anche semplicemente un coetaneo con cui c’è confidenza.
La Regola deve inoltre comprendere alcuni “capitoli”. Uno riguarda il tempo, come lo organizzo, in particolare i momenti di preghiera, dell’impegno (studio/lavoro), del riposo, delle relazioni (amicizia, ecc)… Il tempo va organizzato o si viene trascinati dai social, dall’inerzia, dalla malavoglia oppure incalzati dalle verifiche, esami, maturità ecc. Una Regola di vita deve essere una specie di determinazione di alcune delle qualità del tempo. Un secondo aspetto riguarda le relazioni, la dimensione affettiva, la qualità con cui mi metto in rapporto con gli altri. Il terzo capitolo che mi permetto di raccomandare è quello della libertà: di che cosa sono schiavo e attraverso la mia vocazione qual è la mia risposta?
I tre capitoli “tempo, relazione e libertà” sono imprescindibili. E scriverla, cioè metterla nero su bianco, è un esercizio importante che non si esaurisce una volta scritta, ma si può rileggere, verificare cosa si è realizzato, sbagliato, riscrivere. Nella Regola di vita bisognerebbe definire anche le “oasi”: tutti viviamo momenti di stanchezza, dove sono le mie oasi? Può essere il momento della confessione o della direzione spirituale, cioè quel momento in cui con un prete o un’altra persona con cui ho confidenza mi incontro per dire come va e comprendermi più a fondo».
«A volte, troppo spesso, – racconta in conclusione una giovane – ci troviamo a vivere attività bellissime senza riuscire a passare ai nostri ragazzi il vero senso che le fonda, senza riuscire a fare quel “passettino in più”, ricadendo nella solita attività di catechesi o di fede. Qual è il senso rinnovato di educare alla vita cristiana oggi per ragazzi e ragazze che vivono sempre più uno scollamento fra la vita di tutti i giorni e il messaggio di amore di Gesù?»
Nel capitolo 12 del Vangelo di Giovanni Gesù dice “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”.
«L’opera educativa ha bisogno di una fiducia radicale, al prescindere dai risultati che possiamo misurare. Le verifiche sono sempre importanti per capire, ma magari misuriamo dei fallimenti. Gesù usa l’immagine del seme caduto nella terra, che se non marcisce non porta frutto. L’opera educativa è un seminare, non è raccogliere. Un’opera “in perdita”, fai tante cose per i ragazzi, poi chissà, forse uno o due si sono lasciati entusiasmare dal tuo entusiasmo, accendere dalla tua fiammella…
Noi seminiamo la stessa cosa per tutti, alla fine la risposta di ciascuno è dovuta alla libertà che è inviolabile.
Ma io, se posso suggerire, credo che una delle cose che manchi di più alle nostre proposte, è favorire l’esercizio del silenzio. Provate, con i ragazzi che vi sono affidati…»