L’Arcivescovo ha incontrato i giovani nella visita pastorale al Decanato di Sesto San Giovanni, invitandoli a considerare la vita come una missione e a qualificare la loro presenza, occupandosi nel migliore dei modi del proprio “metro quadro”. Si diventa così protagonisti del futuro, dando ragione della speranza che è in noi
Letizia
Gualdoni
Servizio per i Giovani e l'Università
Sono ripartite, dopo la pausa estiva, con il Decanato di Sesto San Giovanni le visite pastorali dell’Arcivescovo Mario Delpini nel nuovo anno pastorale: dopo la prima giornata di visite di domenica 3 novembre, subito nella sera di martedì 5 novembre, l’occasione di incontro e dialogo è stata dedicata al gruppo giovani della città.
Diversi i giovani che vi hanno partecipato: tanti sono impegnati in servizi educativi, come educatori di preadolescenti e adolescenti in oratorio, e vivono un cammino di formazione decanale proprio legato al servizio che svolgono. Ma, dopo l’esperienza della Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona, si è costituito anche il desiderio di un gruppo che vivesse un cammino formativo personale ed è nato un gruppo giovani cittadino, che quest’anno ha iniziato a lavorare sul tema della speranza, nella prospettiva del Giubileo.
Nei loro incontri del “giovedì”, a partire dall’ascolto della Parola di Dio e del testo delle lettere di Berlicche, sono emerse tre tematiche che i giovani hanno sottoposto all’Arcivescovo nel confronto.
Per primo ha preso la parola Jacopo, portando la sua esperienza di 19enne che ha appena iniziato l’Università: un percorso che implica, come lui stesso rivela, una certa preoccupazione per il futuro: «Come fare a vivere il presente senza fughe in avanti; come vivere, da cristiani, le nostre sfide?», che si potrebbe tradurre in «Come si fa a vivere il presente animati da una speranza?».
Per l’Arcivescovo il modo per vivere il presente senza fughe verso il futuro e senza restare imprigionati nel presente, senza cercare la via più facile e la soddisfazione immediata, è intendere la vita come una vocazione che mi dà una missione. «Il compito da svolgere che ho adesso come studente universitario, o come Vescovo, come questo o quell’altro, è proprio quello di dire: devo fare bene questo in modo tale da costruire oggi, qui, quella presenza del Regno di Dio che ho il compito di annunciare. Ecco, la mia vita è una missione! Vivere il presente come uno che è in missione vuol dire qualificare la propria presenza in università, in oratorio, in famiglia, in qualunque posto… Ecco, quindi, in questa missione, è necessario dire parole che meritino di essere ascoltate (di che cosa parlo con i miei amici? E se io dico solo banalità? Se io dico solo quello che dicono tutti? Che servizio rendo? In che modo rendo più contenti gli altri?); e vivere il presente (dallo studio al lavoro) in modo da impegnare al massimo le proprie qualità per acquisire competenze ed elaborare uno spirito critico».
“Lampada ai miei passi è la tua parola, luce al mio cammino” è il salmo che il Cardinal Martini fece suo quasi come un motto per la vita. L’Arcivescovo lo ha richiamato, incoraggiando a non restare fermi, ma a camminare, non su qualunque strada, ma su quella che ci può indicare la Parola di Dio.
Lorenzo, 20 anni, ha rilanciato: «Nel nostro gruppo di condivisione, parlando della speranza abbiamo pensato alla felicità. La prima domanda che ci è venuta in mente è: che cos’è la felicità? È una domanda a cui noi non abbiamo saputo trovare una risposta; ognuno ha la sua risposta diversa. Nel Vangelo non si parla di felicità ma di beatitudini. E poi: si può effettivamente raggiungere oppure corriamo il rischio che sia qualcosa di utopistico e che sia quasi irraggiungibile?».
«Io sono persuaso – ha risposto l’Arcivescovo – che la felicità è una promessa, cioè la vita contiene la promessa della felicità. La felicità non è una cosa, non è uno stato, ma è una promessa. Il venire al mondo contiene la promessa di essere felici. La felicità è una promessa che può fare soltanto chi non teme la morte. Soltanto Gesù è colui che porta a compimento la promessa di felicità; quindi la felicità non è una cosa che uno ha, ma una relazione che noi possiamo costruire. E io vorrei raccomandare a tutti di leggere il Vangelo di S. Giovanni, che comprende il capitolo 15 dove c’è scritto questo: “Io vi ho detto queste cose, perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena”. Ecco: questo è il discorso della felicità». Viviamo in un mondo in cui la gente si ammazza, i fiumi esondano e distruggono le città e tante tragedie sono all’ordine del giorno. Potremmo allora dire che la felicità in questo mondo esiste solo in una relazione con Colui che può promettercela, perché è passato attraverso l’abisso, il male, la valle oscura ed è risorto. «Ecco perché celebriamo l’Eucaristia, la celebrazione della presenza di Gesù che è morto e risorto ma che non si vede; però questo pane e questo vino sono la comunione, l’amicizia con Gesù che induce a desiderare di vederlo, così come Egli è».
Martina, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, ha portato invece questa questione: «Noi giovani siamo accomunati spesso da un senso di incertezza e preoccupazione per quanto riguarda il mondo del lavoro. Anche Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo afferma che i giovani hanno bisogno di speranza perché sembra che non ci appartenga. Viene da chiederci: cosa nella logica del mondo rischia di rubarcela e come noi giovani possiamo essere promotori per le nuove generazioni di speranza?».
«Chi ruba la speranza – ha affermato l’Arcivescovo – è l’idolo dell’idolatria (es. la ricchezza o l’ossessione per la bellezza ecc.). Quello che ti illude che a portata di mano c’è quello che colma il tuo desiderio, lo raggiungi e capisci che è fumo, una manciata di mosche… Chi non ruba la speranza è chi offre una promessa affidabile: noi tutti siamo il popolo dei pellegrini di speranza e crediamo che il futuro non è un qualcosa che qualche idolo può rubarci, ma un tempo che Dio può donarci. Come sarà il futuro? Noi cristiani siamo consapevoli di avere una missione da compiere e diciamo: il futuro non sarà come lo prevedono le proiezioni, come lo descrivono i venditori di disperazione, noi abbiamo questa umile persuasione: “il futuro sarà come lo faremo noi. Noi siamo protagonisti del futuro, noi possiamo costruire quel pezzetto di futuro che ci tocca; il futuro sarà come lo faremo noi!”. Io utilizzo questa immagine del “metro quadro” perché mi pare che incoraggi. Cosa vuol dire l’immagine del metro quadro? Vuol dire questo: se a me dicessero che il mio incarico è quello di togliere le erbacce dalla Pianura Padana, io non comincerei neanche una cosa così spropositata. Se invece mi dicessero: tu togli le erbacce da questo metro quadro… Se è un metro quadro, questo posso farlo. Per la Pianura Padana ci penseranno gli altri. Io penso a quel poco che posso fare e questo lo faccio bene e così semino il futuro». Per trasmettere una fiducia nel futuro ai ragazzi di cui magari si ha la responsabilità di educare, l’Arcivescovo ha suggerito strade: essere contenti, che è un po’ una cosa rara (oggi pare sia di moda lamentarsi, essere scontenti e avere un’idea catastrofica di tutto) e quindi camminare verso il futuro con la speranza, per testimoniare la gioia, la felicità, che è il compimento, contenti di essere vivi, di poter fare il bene. Poi il servizio della carità. La terza cosa è dare le ragioni della speranza».
Ma in questa serata, per la prima volta, è stato anche l’Arcivescovo a porre delle domande ai giovani, per provocarli a riflettere. La prima è stata questa: «Viene da te un amico, un’amica e ti dice: “Io ho paura”. Tu cosa gli dici?». Per prima cosa gli chiedo qual è il problema e se me lo vuole confidare; e poi insieme a lui provo a dare dei consigli…, ha provato a rispondere un giovane. Riguardo questa paura, ha aggiunto l’Arcivescovo, «può essere la paura della vita, la paura di non essere amato; se è la paura di fare un esame allora è più semplice, gli dici: studia!».
La seconda domanda dell’Arcivescovo ai giovani ha riguardato i limiti della scienza e l’enigma dell’origine di tutte le cose: «Il professore di fisica in classe vi dice: Dio è un’ipotesi inutile perché tutto quello che esiste, e il mondo, si possono spiegare senza il bisogno di Dio. Magari non si spiega tutto adesso ma la scienza, a poco a poco, farà capire, e spiegherà perché le cose esistono. Quindi Dio è un’ipotesi inutile. Allora la domanda è questa: ammettiamo che tu alzi la mano: cosa dici?».
La scienza non può spiegare quello che è relativo al senso delle cose. «Bisognerebbe dire: come fai a dire che Dio è un’ipotesi inutile? Noi sappiamo di un fatto storico che anche scientificamente si può conoscere, la presenza di Gesù; noi abbiamo dei motivi per credere che Gesù è stato sulla terra, è morto ed è risorto., non perché la scienza può dimostrare la plausibilità o meno della risurrezione ma perché la credibilità dell’annuncio evangelico ha una plausibilità molto fondata (con testimoni, storia ecc)».
In ultimo ha lanciato un “concorso”, per definire con tre parole “il futuro che ti immagini per te, oppure per il pianeta oppure per la città di Sesto San Giovanni”.
Dopo il dialogo e il tempo condiviso della cena, nel salone dell’oratorio Sant’Andrea di Sesto San Giovanni, la serata si è conclusa con la preghiera in chiesa, con la recita della compieta (che dà compimento alla giornata nel nome del Signore Gesù) e un momento di Adorazione Eucaristica.
Proprio per esercitarsi con creatività sul tema della speranza, invitiamo ad esprimerla attraverso diversi linguaggi (musica, letteratura, foto/video, arte) con il Concorso “Hope – Creativi nella speranza”. Ci diamo inoltre appuntamento agli Esercizi spirituali nelle Zone pastorali del 2, 3 e 4 dicembre, per continuare ad approfondire il fatto che la vita è una vocazione: sono diversi i percorsi che la Diocesi mette a disposizione in tal senso proprio per camminare ed entrare in profondità nella domanda della vocazione.