La Chiesa è un corpo, il corpo di Cristo che cammina con le sue membra viventi. A Monza il 25 marzo lo vedremo bene
di Samuele Tagliabue
membro del Consiglio Pastorale Diocesano
È bello pensare alla Chiesa come un popolo. Nel secolo dei selfie e dell’on-demand, la categoria di popolo è un po’ passata di moda. Oggi, specie per i giovani, è molto più facile (e comodo) sentirsi individui. Anche credere sta diventando un segno individuale, una specie di effetto personale. La fede scivola nella sfera dell’intimismo e diventa un dettaglio relativo e trascurabile della vita (a meno che invada lo spazio dell’altro, allora dà fastidio). Ma viene l’ora – ed è questa – in cui emerge la Chiesa come popolo. Essa esce dai suoi sepolcri, dai suoi sicuri ripari e si stringe come un gregge intorno al suo pastore. Gli occhi assetati ma incapaci di scollarsi dal luminoso schermo dello smartphone sono chiamati ad alzarsi. C’è la gente che cammina. È il “fermento di Dio”, la Chiesa: un posto per chi non è perfetto. Gli apparati, le sovrastrutture e le istituzioni la appesantiscono. I suoi convegni e le sue riunioni sono spesso sterili. Alla Chiesa interessa invece la strada. Interessa il corpo. Perché la Chiesa è un corpo, il corpo di Cristo che cammina con le sue membra viventi. A Monza il 25 marzo lo vedremo bene. Giovani, vecchi, malati, ricchi, magari anche qualcuno che della Chiesa nemmeno si sente parte. Un popolo. Un popolo già santo/separato dalla parte di Dio. La parte dove ogni passo, ogni mano, ogni volto umano è già benedetto e già appartiene a Lui.