Anche se lo abbiamo fatto in modo tempestivo a poche ore dall’evento, è bene tornare sull’episodio di razzismo legato a Pro Patria-Milan, perché, come spesso accade, sembra che il calcio stia perdendo l’ennesima occasione per riscattarsi. Lo diciamo perché dopo quei ripetuti “buu” dagli spalti e la plateale contestazione dei tifosi di Busto (quelli sani nel frattempo si sono dissociati con piglio molto energico dalle poche mele marce), ci saremmo aspettati un coro di elogi verso la decisione di Boateng e del Milan di lasciare immediatamente il campo in segno di protesta. Certo, il battage mediatico ha contribuito a smuovere le acque spesso limacciose che circondano l’affare razzismo in Italia (il cui lato sportivo è solo una delle tante sfaccettature), ma dopo alcune levate di scudi e dichiarazioni inequivocabili (come quella del Ct Prandelli, che ha elogiato la presa di posizione del Milan), molti organi ufficiali, nazionali e internazionali hanno cominciato il desolante (e già visto mille volte) balletto dei distinguo. Della serie: «L’atto era da condannare, ma non in questi termini…», eccetera eccetera.
Poteva mancare al coro il padre padrone della Fifa Sepp Blatter? No di certo, e infatti è arrivata la reprimenda, anziché agli ultrà razzisti, al Milan, reo di aver abbandonato il campo. «Non si fa così – ha spiegato il numero uno della Fifa – certo, ci vogliono regole ferree per scoraggiare il fenomeno razzismo, ma la squadra o il tesserato non devono mai lasciare il campo…». Della serie: lo spettacolo deve continuare, comunque e qualunque cosa accada. Altrimenti si squalifichi il giocatore o il club: che quindi passerebbero dal danno alla beffa. Un ragionamento che potrebbe anche calzare se tutti gli altri organi preposti, dall’arbitro ai dirigenti della Federcalcio e della Lega, o anche i vertici delle forze dell’ordine presenti alla partita, una volta ravvisate le condizioni gravi per interromperla, lo facessero senza esitazioni.
Invece da sempre si assiste da parte loro a un silenzio assordante, a una melina intollerabile, che indigna il resto del pubblico (la stragrande maggioranza che assiste civilmente al match) e offende gravemente quei ragazzi che oltre ad essere bersagliati dai cori beceri avvertono un desolante isolamento attorno a loro.
E si badi bene: il caso di Busto non è certo il primo. Basti ricordare i fischi razzisti al nigeriano del Treviso Omolade da parte dei propri tifosi, o gli insulti all’ivoriano Zoro in Messina-Inter, o ancora il camerunense Etoo preso di mira sia in Spagna sia in Italia, senza contare gli strali contro Balotelli degli ultrà veronesi.
La sortita di Blatter sembra quasi giustificare a tutti i costi la logica del calcio-business, per cui è necessario continuare a far girare una ruota che procede ormai quasi solo grazie ai soldi degli sponsor e delle tv e sempre meno del pubblico pagante. Certo, ci sono i Daspo (tempestivamente già applicati anche per i primi sei giovani ultrà della Pro Patria denunciati), le partite a porte chiuse, le squalifiche e anche le denunce, ma non è solo così che si stronca un atteggiamento che invece è strisciante, quasi di matrice sottoculturale e che puntualmente si ripresenta, sotto le forme più disparate e subdole. Basti pensare che tra gli indagati di Busto c’è persino un assessore comunale di un comune milanese, per capire che diventa troppo comodo liquidare la cosa bollando «i soliti 4 incivili».
Ora il presidente della Federcalcio Abete si dice pronto a un cambio di marcia, con la possibilità di fermare davvero le partite al minimo accenno di razzismo dagli spalti, anche se poi il Viminale ha già precisato che l’ultima parola per uno stop spetterà sempre e comunque al responsabile dell’ordine pubblico.
Qualcosa però deve cambiare dopo Busto Arsizio, altrimenti la burocrazia (e la politica sportiva) si renderà complice della barbarie: un incrocio perverso che sta portando il calcio (e non solo) fuori controllo.