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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Intervista

Gualzetti: «Caritas ambrosiana, da 50 anni incontro ai nuovi poveri»

In occasione dell’anniversario di costituzione parla il direttore: «La nostra “pedagogia dei fatti” impone sempre nuove modalità per tradurre il dovere della solidarietà cristiana nel contesto odierno. Solo ascoltando e interpretando i segni dei tempi è possibile dare una testimonianza evangelica credibile»

di Paolo BRIVIO

14 Dicembre 2024
Luciano Gualzetti

Luciano Gualzetti, lecchese, 63 anni, è direttore di Caritas ambrosiana dalla primavera del 2016. Ma fino ad allora era stato vicedirettore a partire dal 1997, e precedentemente aveva ricoperto i ruoli di responsabile decanale (1991) e zonale (1995) della Caritas di Lecco: insomma ha coperto, a livello locale o centrale, più di metà del percorso cinquantennale dell’organismo pastorale diocesano. Che dunque non solo conosce a fondo, ma ha anche visto cambiare e crescere, in corrispondenza con i mutamenti sociali e culturali di Milano e degli altri territori lombardi.

Caritas ambrosiana si appresta a tagliare il traguardo del mezzo secolo di vita. È un organismo ancora giovane, o accusa il peso del tempo?
La Caritas ha la fortuna di avere uno Statuto tuttora attuale, esito dell’aggiornamento conciliare che ha riguardato anche la dimensione della carità. In questi 50 anni, Caritas ha però dovuto interpretare lo Statuto in rapporto ai grandi cambiamenti ecclesiali e sociali che si sono presentati. Soprattutto negli ultimi vent’anni c’è stato un incalzare di crisi: le conseguenze di alcune fondamentali transizioni (ecologica, demografica, digitale) portano Caritas a incontrare sempre nuovi poveri e a cercare di capire che cosa ha reso la vita difficile a queste persone. Sia in termini individuali, sia di sistema.

Questi mutamenti hanno prodotto un riflesso sulla “vocazione pedagogica” che definisce l’identità di Caritas?
Questa vocazione non è mai venuta meno e non muta, ma non definisce un metodo immodificabile. La Caritas deve sempre considerare le condizioni dentro le quali i fenomeni di povertà si manifestano, per darne una lettura non autoreferenziale, ma incentrata sull’ascolto e sull’interpretazione dei “segni dei tempi”. Solo partendo da questa lettura è possibile capire come il Vangelo può essere vissuto in modo credibile oggi. La testimonianza della carità è dunque vita del Vangelo incarnata. I poveri, in altre parole, costringono Caritas e la Chiesa a mettersi in discussione.

In un clima sociale e spirituale più frammentato, la “pedagogia dei fatti” continua a essere una via percorribile?
La funzione pedagogica non deve essere un insieme di prescrizioni morali o di stili astratti, ma deve incarnarsi nelle diverse realtà che devono essere trasformate dalla forza del Vangelo per ricostruire relazioni di fraternità, di pace, di giustizia, di dignità. Se la fede non diventa vita, se non produce vita buona, non è autentica. Per realizzare questo compito, non può limitarsi a indicazioni di principio o a mere prediche, ma deve promuovere la “pedagogia dei fatti”: proporre un punto di vista diverso a partire dalla scelta preferenziale dei poveri e cercare sempre nuove modalità concrete per tradurre il dovere della solidarietà cristiana nel contesto odierno. Decidendo ogni volta da che parte stare e di stare nelle ferite delle persone e della storia cercando di ripensare il sistema. La funzione pedagogica continua a essere una via percorribile, nella misura in cui promuove opere capaci di incarnare una visione di carità orientata a rimuovere le cause delle povertà (non a occuparsi solo degli effetti), a non dare per carità ciò che va riconosciuto per giustizia, a prestare aiuto in modo tale che la persona aiutata non ne abbia più bisogno».

In questa stagione, cosa ha ricevuto Milano da Caritas? E cosa hanno imparato Caritas e la Chiesa ambrosiana dalla metropoli?
C’è un radicamento di Caritas a Milano, ma se c’è una caratteristica della Diocesi è che copre una pluralità di territori, una sorta di “città estesa”. In un certo senso, la Chiesa ha interpretato anticipatamente la vocazione di una metropoli che va oltre il confine della città, centro di una regione, ma vitalmente connessa all’hinterland e a tutto quanto la circonda. È una lezione che risale a Sant’Ambrogio, che distingueva tra Charitas romana e Charitas cristiana: era l’intuizione della necessità del superamento di una Charitas chiusa, identitaria e classista, verso una aperta e inclusiva. Una prospettiva tuttora attuale, che fa parte del patrimonio ideale che si è conservato lungo l’intera storia di Milano, e penso si possa dire che negli ultimi 50 anni Caritas abbia aiutato a confermare questa sua identità. Lo si è visto chiaramente nei confronti del fenomeno delle migrazioni. E poi c’è il tema della capillarità: siamo in ogni parrocchia, ovunque c’è una Caritas che si occupa delle persone in difficoltà, sia di coloro che lì vivono da sempre, sia degli ultimi arrivati. È un elemento di costruzione dell’identità della parrocchia, ma anche del contesto civile. Non cadendo nell’assistenzialismo, perché, anche nel momento dell’aiuto materiale, Caritas cerca sempre di offrire una visione diversa del povero: non è solo un problema, non deve essere visto come un fastidio, o come generatore di degrado, ma è persona che ha risorse residue da cui bisogna partire per pensare le soluzioni, di cui il povero stesso deve diventare protagonista.

Le crisi hanno generato forme di presenza differenti rispetto al passato?
La Caritas ha puntato a sviluppare una nuova forma di presenza, le Case della carità, per rendere evidente la dimensione della carità come una delle dimensioni della pastorale, accanto a liturgia e catechesi: nelle parrocchie più grandi la presenza di tre strutture (chiesa, oratorio, Casa della carità) manifesta il riferimento alla triade evangelica pane (eucaristico) – Parola – poveri. Queste Case (oggi ne abbiamo sette in Diocesi) costituiscono un coordinamento di diversi servizi diurni (mense, docce, empori, guardaroba) e notturni (rifugi per senza dimora e accoglienze dei profughi).

 

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