«Di quale teologia abbiamo bisogno in questo momento della Chiesa? Che tipo di teologia facciamo?». Parte da alcune domande, l’Arcivescovo che, nella sua veste di Gran cancelliere, inaugura l’anno accademico 2024-2025 della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e dell’Istituto superiore di Scienze religiose di Milano, presenti i presidi delle due realtà accademiche, docenti, studenti, personale e collaboratori. Un appuntamento tradizionale e solenne, arricchito dalla prolusione dell’Arcivescovo emerito di Malines-Bruxelles, il cardinale Jozef De Kesel, dal titolo «Essere cristiano in un mondo che non lo è più» (lo stesso anche di un suo fortunatissimo saggio).
Leggere i segni dei tempi
Accanto al Cardinale, l’Arcivescovo che, richiamando «l’interesse e il desiderio di confronto che suscita» il tema scelto, ancora si chiede: «Una Chiesa un poco vecchia e stanca, preoccupata del suo futuro, produrrà una teologia simile o proprio dalla lungimiranza e sapienza di chi è addetto allo studio, la nostra Chiesa troverà coraggio e strade per il futuro, per pensare la sua presenza e la verità cristiana? Mi auguro che docenti e studenti affrontino la teologia non come un adempimento accademico, come lavoro seppure molto serio, ma come una responsabilità».
Parole subito raccolte dal preside della Facoltà don Angelo Maffeis – alla sua prima inaugurazione alla guida dell’Ateneo – che sottolinea: «Anche oggi la cattedra magistrale e quella pastorale sono chiamate a collaborazione per il bene del popolo di Dio. Dobbiamo ancora una volta leggere i segni dei tempi e capire come la Chiesa possa confrontarsi con un mondo in profondo mutamento».
«Nonostante i segni di disinteresse per la riflessione religiosa, occorre un annuncio da rivitalizzare – aggiunge don Ermenegildo Conti, preside dell’Issrm -. L’anno giubilare è occasione propizia affinché la competenza teologica crei ascolto reciproco. Sempre più sono necessarie competenze laicali che non potranno prescindere da una seria riflessione teologica». E annuncia la novità «dell’inizio di un percorso formativo in collaborazione con la Diocesi, per i ministri istituiti: lettori, accoliti e catechisti».
Cristiani in un mondo che non lo è più
Dall’assunto che percorre la sua intera riflessione, si avvia la prolusione del cardinale De Kesel: «Oggi la società non è più cristiana e questa è una grande sfida per la Chiesa di oggi, in Occidente e anche altrove nel mondo. È una chiamata a conversione, in questo cambiamento di epoca molto complesso, come dice papa Francesco». Infatti, se per «più di un millennio, il cristianesimo è stato il quadro di riferimento arrivando a ricomprendere se stesso come religione universale e non come popolo di Dio in mezzo ad altre nazioni – come l’Islam è ancora religione culturale in alcuni Paesi -, oggi non è più così».
«Dopo l’antichità solo il cristianesimo poteva assumere il compito di religione culturale, ma la Chiesa da se stessa non è chiamata a questa strada. La modernità porta alla formazione di una cultura secolare, ma la secolarizzazione non impedisce di essere cristiani perché una società secolare è pluralista, anche se la fine di un cristianesimo culturale, ovviamente, è vissuta come una crisi. Se si deve scegliere tra una cultura religiosa e una cultura secolare – spiega il Cardinale -, devo dire che preferisco la seconda, anche se può sorprendere, in quanto solo una società secolare garantisce la libertà e la libertà religiosa».
La secolarizzazione
Tuttavia, come il cristianesimo, «anche la secolarizzazione non è priva di problemi, perché non è solo la religione che può radicalizzarsi e diventare violenta, ma anche una mentalità radicalizzata può degenerare in secolarismo. È sbagliato ridurre la secolarizzazione al secolarismo e comprendere questo è molto importante per il futuro della Chiesa e per la credibilità del suo messaggio, poiché ci aiuta a comprendere la presenza della Chiesa nel mondo».
Anche perché «non è la Chiesa che salva il mondo, ma Dio: non capirlo ha portato a tanti drammi e minacce alla credibilità della Chiesa stessa», osserva ancora De Kesel, ricordando come le Costituzioni conciliari Lumen Gentium e Gaudium et Spes e la dichiarazione Nostra Aetate abbiano segnato una svolta: «Non si tratta di cambiare le strutture, ma di convertirci, di pensare un modo diverso di essere Chiesa nella società. Il Concilio è stato davvero l’inizio della risposta a una autocomprensione della Chiesa molto pericolosa. Per questo era fondamentale comprendere i segni dei tempi e papa Francesco, oggi, prosegue su questa strada con il processo sinodale».
La Chiesa e il mondo
Chiaro il riferimento al rapporto tra Chiesa e mondo: «La Chiesa è chiamata a vivere nel mondo, non nel suo mondo. Se la Chiesa è un sacramento universale, come l’ha definita il Concilio, questa è la sua vocazione: essere segno, in parole e opere, dell’amore di Dio in mezzo a tante situazioni esistenziali, anche nel mondo secolare, dove deve annunciare il Vangelo. Questa è la seconda sfida L’annuncio è la ragione della nostra esistenza come Chiesa».
Ma come farlo? «Evangelizza l’amicizia, l’incontro vero senza secondi fini, condividere la vita come compresero Charles de Foucauld o i monaci della comunità di Thibirine in un Paese musulmano, essendo stati cristiani in un mondo che non lo era, realizzando l’annuncio nella vita semplice, essendo Chiesa nel senso pieno della parola. Non c’è Chiesa senza il mondo e, quindi, ella ne deve convivere le gioie, le speranze e le angosce, come dicono le più belle parole del Concilio, quelle dell’inizio della Gaudium et Spes. La sinodalità, oggi, non è la pur necessaria divisone dei poteri e delle responsabilità all’interno della Chiesa, ma deve essere la cifra del rapporto con il mondo».
Da qui la conclusione: «Il clericalismo fa sentire superiori nel rapporto con il mondo e rende la Chiesa sorda e cieca di fronte ai segni dei tempi: una Chiesa che non ascolta, autoreferenziale, autosufficiente e che non ha più bisogno di conversione. Ecco perché la sua presenza e la missione in un mondo secolarizzato sono una grazia e un dono, per noi un impegno e una vocazione».
Poi la Messa presieduta da monsignor Delpini nella Basilica di San Simpliciano, concelebrata dal Cardinale e da una ventina di sacerdoti docenti della Facoltà e dell’Istituto, con un’ultima consegna da parte dell’Arcivescovo (qui la sua omelia).
«Ecco la benedizione che si deve pronunciare su un anno accademico in questa Facoltà teologica: che nella carne, nella fame, nella storia di Gesù noi contempliamo la sua gloria, la gloria di Dio; che il nostro essere troppo inadeguati a comprendere Gesù convinca alla sequela dei discepoli; che le nostre fatiche non siano per produrre apparenze promettenti, ma il frutto dolce che può sfamare il desiderio di Gesù e cosi possa regalare dolcezza ai piccoli, ai suoi eletti che gridano verso di lui giorno e notte».