Com’è sua abitudine, quanto deve dire, papa Francesco lo dice chiaramente. Le migrazioni globali non sono una minaccia, ma un’opportunità per costruire un futuro di pace. «Aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta»: accogliere l’altro significa agire concretamente e in maniera responsabile. I governanti hanno una precisa responsabilità nell’assicurare i diritti e lo sviluppo armonico delle proprie comunità. Coloro che, anziché costruire la pace, «fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, seminando violenza, discriminazione razziale e xenofobia», sono fonte di grande preoccupazione. Bisogna trovare un equilibrio tra le esigenze di sicurezza nazionale e la tutela dei diritti umani.
Il messaggio per la Giornata della pace 2018 indica la via per gestire il futuro della globalizzazione, per rispondere alle sfide degli imponenti flussi migratori, della multiculturalizzazione, della domanda di una più equa divisione internazionale del lavoro tra Paesi ricchi e Paesi a economia povera. Il paradigma di riferimento è il nuovo diritto internazionale radicato nella prima parte della Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Il messaggio riflette quanto enunciato nel Preambolo della Dichiarazione: «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
Il diritto internazionale dei diritti umani, con il corollario del principio di sussidiarietà, è la bussola con cui procedere a devolvere e distribuire funzioni e strutture lungo una scala che ha come polo iniziale la città, come polo intermedio lo Stato e come polo terminale le legittime istituzioni multilaterali. Il Papa invita a guardare le migrazioni globali «con uno sguardo carico di fiducia» e indica quattro pietre miliari per l’azione: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Questo significa saper agire a tutti i livelli di governance, dalla città all’Onu appunto, mettendo al centro non l’interesse nazionale, ma la persona umana.
La città è polo territoriale primario della dinamica della sussidiarietà: quindi, per sua stessa natura costitutiva, è la principale garante di tutti i diritti umani per quanti risiedono nel suo territorio. Al pari degli Stati, le città si qualificano come entità territoriali, ma diversamente dagli Stati la loro territorialità è sinonimo di autonomia e di governo dei servizi, non di sovranità e confine. La multietnicità e la multiculturalità, da tradurre in interculturalità nella «città inclusiva», sono «risorse di pace» per il mondo intero. La città dunque ha il compito primario di accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma deve essere messa nelle condizioni di farlo e qui entra in gioco la responsabilità dei governi nazionali, che dovrebbero dare all’ente locale maggiore autonomia e risorse adeguate. Scelte necessarie, ma non sufficienti. I governi nazionali, infatti, dovrebbero anche promuovere una legislazione (europea) che riconosca la cittadinanza plurale e inclusiva partendo dall’assunto secondo cui la cittadinanza, oltre che un diritto fondamentale della persona, costituisce la certificazione che ciascun essere umano possiede gli stessi diritti innati. Paradigmatico è quanto proclama l’articolo 1 della Dichiarazione universale: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Lo ius sanguinis deve essere cancellato e deve essere introdotto uno ius soli “europeo”, mentre lo ius humanae dignitatis deve costituire il parametro sovraordinato a qualsiasi altro. All’interno di questo percorso, gli Stati membri dell’Unione Europea non avrebbero più alibi e dovrebbero senza ulteriori indugi ratificare la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata dall’Onu nel 1990 ed entrata in vigore nel 2003.
Come i suoi predecessori, papa Francesco guarda all’Onu quale cantiere universale per la elaborazione di un diritto globale in materia di migranti e rifugiati. San Giovanni Paolo II definì l’Onu «centro morale» e «famiglia di nazioni», sottolineando come «in un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti». Il Papa invita gli Stati a dar seguito agli impegni assunti con la Dichiarazione di New York per i rifugiati e i migranti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 settembre 2016, e chiede che il negoziato intergovernativo che nel 2018 dovrebbe portare all’adozione di un global compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare, sia ispirato «da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza».
La storia ci insegna che i negoziati intergovernativi, se lasciati nelle sole mani dei governi, non possono che produrre compromessi tra i diversi e spesso contrastanti interessi nazionali. Gli enti locali, le organizzazioni non governative, i centri per i diritti umani, le comunità cristiane e tutti i costruttori di pace sono chiamati a dare il loro contributo. I canali per partecipare al negoziato ci sono. Gli uomini e le donne in cerca di pace ce lo chiedono. Abbiamo la responsabilità di agire.