Questo “dittico” di Marco Beck traccia un percorso spirituale che dal chiarore dell’alba di Pasqua giunge al tramonto luminoso di quello stesso giorno. È un cammino misurato, simbolicamente, sul giro del sole: dalla manifestazione mattutina del Risorto alla Maddalena, presso il sepolcro vuoto, fino al suo incontro serale con i due discepoli sulla via di Emmaus. Il denominatore comune di queste meditazioni è l’invito a rispecchiarci, a riconoscerci nei diversi personaggi dei racconti evangelici, in una progressione interiore che – in virtù di una inconcepibile “pazzia d’amore”, la morte di Gesù sulla croce – ci redime dalla condizione di peccatori-traditori-crocifissori per innalzarci al livello di testimoni gioiosi della Risurrezione
«Mé mou háptou»
Noli me tangere, le dice.
Ma non sono, in realtà, soltanto i polpastrelli
della donna di Màgdala,
così perdutamente eppure santamente
del suo perdonatore innamorata,
quelli che respinge
dalla propria carne – in parte,
forse, ancora gelida di morte, o invece
già di vita eterna incandescente.
Da sé tiene lontane
anche le nostre brancolanti dita,
ansiose d’un contatto in qualche modo fisico,
la loro frenesia di un’evidenza
che risulti – alla lettera – palmare
del suo essere con noi, tra noi, risorto.
Nolite, dunque, me tangere, al plurale.
Mai ne avremo tangibile la prova,
pelle contro pelle
(quella di Tommaso resta una stupenda,
illogica, poetica eccezione).
Ma se sapremo estrarre dalla pietra
il nostro cuore, facendolo aderire strettamente
al cuore del Riemerso dal sepolcro,
al suo rigenerato, inarrestabile pulsare,
ecco, sentiremo – nel chiarore ancora incerto,
nel silenzio dell’anima e dell’alba –
che Lui, l’Ucciso, è vivo.
Emmaus
A questo troppo spesso inerte spettatore,
a questo in qualche modo complice del Tuo venire
irriso dalla nostra indifferenza;
appeso alla traversa del terrore nostro, della nostra
lignea paura; svenato dall’aguzza lancia
che ogni nostro singolo peccato
sempre più in profondità t’infigge nel torace;
a questo pur cattivo testimone svélati risorto:
commetti, per amore, questa santa iniquità.
E non trasfigurarti, se lo puoi, Gesù.
Perché, abbagliato dal fulgore della Tua regalità,
potrei non più vedere le minute cicatrici
che t’aureolano la fronte e ancora,
giorno dopo giorno, l’imperlano di nuove
stille del Tuo sangue redentore.
Sii come Tu fosti ai primi che da ultimo
ti videro, diverso eppure ancora umano,
persino ancor piagato il fianco ed ambedue le mani.
La Tua divinità sia sotto la perfetta umanità
velata. Al Cristo faccia schermo il Nazareno,
come una particola lo avvolga
che a labbra peccatrici è dato di toccare.
Ed io, che non sia solo, come la donna
di Màgdala, Signore: sai, nel murmure che vibra
d’improvviso, e modula il mio nome, potrei
non cogliere il Tuo timbro di voce venuta dall’Eterno,
potrei passare oltre il falso giardiniere,
negare all’irriconosciuta Verità
il mio credente, affermativo «Rabbunì!».
E possa dunque avere al fianco un mio compagno,
l’unica compagna che Tu stesso hai dato
al mio cammino. L’altro discepolo sia lei, ed Emmaus
la meta di questo nostro uniti andare,
Emmaus l’inquietudine gioiosa, Emmaus
quell’angelo che sbatte frenetico le ali dentro il cuore.
Ma Tu, prima che al villaggio si pervenga,
disvélati, Tu prima di spezzare il pane,
prima che la sera scenda
e il desiderio muti in nostalgia, e insieme al cielo
il sangue, il nostro sangue, trascolori.
E quando ti sarai manifestato come il Dio
che a porte chiuse passa e a cieli aperti,
ma come, anche, l’uomo che con noi,
che pane e pesce e lacrime con gli uomini divide, allora
per un lungo intenso interminato istante
làsciati fissare.
Poi, non scomparire più.