16/09/2008
di Generoso SIMEONE
Tutti promossi, sempre. È questo il bilancio di “Ospitare l’infanzia”, un progetto che la fondazione Casa della Carità attua da tre anni per favorire l’integrazione scolastica dei bambini rom. «Perché non basta dichiarare che i rom devono mandare i figli a scuola – spiega Donatella De Vito, responsabile dell’iniziativa -; bisogna anche lavorare per il reale successo scolastico di questi bambini».
“Ospitare l’infanzia” nacque nell’estate del 2005 nell’ambito di una serie di interventi sociali ideati dalla Casa della Carità per sostenere alcune famiglie rom rumene accolte nella struttura di via Brambilla a seguito dello sgombero del campo nomadi nel quale vivevano. Accanto a progetti finalizzati a favorire gli inserimenti lavorativi degli adulti, si pensò anche a come incoraggiare la frequenza e il profitto scolastico dei minori.
«Partimmo in via sperimentale nel settembre del 2005 – racconta Donatella De Vito – con circa trenta bambini distribuiti tra elementari e medie. La difficoltà più grande da fronteggiare in quel momento fu di natura linguistica. I nostri piccoli rom conoscevano pochissimo l’italiano e non potevano seguire le lezioni della classe. Per questo, d’accordo con gli insegnanti, decidemmo di portare gli operatori della Casa della Carità all’interno della scuola con il compito di lavorare singolarmente, per alcune ore e fuori dall’aula, coi vari bambini rom. In questo modo potevamo stabilire obiettivi personalizzati per ciascuno di loro e valutare così i progressi fatti nel corso dell’anno».
Il problema della lingua non era l’unico. Un’altra complicazione riguardava la scolarità pregressa dei bimbi rom perché, tra loro, c’era qualcuno che non era mai stato in un’aula oppure l’aveva frequentata in maniera spezzettata e saltuaria. Senza dimenticare che, per legge, gli alunni devono essere iscritti obbligatoriamente nelle classi corrispondenti alla loro età.
«Ci siamo ritrovati – spiega Donatella De Vito – a dover gestire l’inserimento alle medie di ragazzini che non avevano mai tenuto in mano una penna. Non solo non sapevano leggere e scrivere, ma non avevano nemmeno l’abitudine a stare seduti tra i banchi. Nonostante ostacoli così ardui i risultati furono soddisfacenti. Tutti i bambini ottennero il massimo successo formativo rispetto alle loro condizioni di partenza. Il merito fu anche della collaborazione degli insegnanti, ma soprattutto dello straordinario entusiasmo dei bambini, difficilmente riscontrabile nei loro coetanei italiani o stranieri. Tutti i nostri piccoli rom erano contenti di frequentare la scuola. Ci andavano proprio volentieri e ricordo che addirittura uno di loro ci rimase male quando arrivarono le vacanze di Natale. Voleva continuare ad andare in classe e non accettava l’idea di restare a casa».
La presenza degli operatori della Casa della Carità all’interno degli istituti scolastici non è l’unica caratteristica di “Ospitare l’infanzia”. Gran parte del lavoro coi bambini viene fatto anche nelle ore pomeridiane all’interno del doposcuola. Con tecniche didattiche innovative e adatte all’istruzione per gli stranieri sono stati condotti laboratori ludico creativi con l’obiettivo di accelerare il livello d’apprendimento. «Per fargli fare i compiti di matematica – spiega ancora la responsabile del progetto – inventavamo dei giochi matematici, così come ricorrevamo al teatro e alla recitazione per l’italiano».
“Ospitare l’infanzia” è continuato anche nei due anni successivi. Sono aumentati i bambini coinvolti perché al nucleo originario si sono aggiunti quelli del campo nomadi di via Idro per un totale complessivo di 60 alunni rom. Le novità hanno riguardato l’implementazione del numero degli operatori e l’ampliamento delle attività collaterali. Tra queste, i laboratori di psicomotricità dedicati a tutti i bimbi della classe e non solo ai rom e un maggior coordinamento con i genitori degli alunni, che sono stati via via sempre più coinvolti nel percorso scolastico dei propri figli.
Dai campi nomadi ai banchi di scuola e con profitto. Il senso di “Ospitare l’infanzia” viene ben sintetizzato dalla storia di un adolescente rom inserito sin dal primo anno nel progetto. Oggi quel ragazzino, che viveva in una baracca di un campo nomadi, è iscritto al secondo anno di un istituto d’arte. «I suoi compagni di classe lo hanno soprannominato “il genio” per le sue capacità creative», conclude con orgoglio Donatella De Vito.