Giovanni, a Lavagna, che si butta dal balcone per 10 grammi di hashish; Michele, a Udine, che si toglie la vita perché non sa più “sopravvivere”. Sono solo due dei suicidi di adolescenti che hanno riempito le pagine di cronaca delle ultime settimane. Secondo l’Istat, sono stati 594 in un anno i casi di suicidio tra i ragazzi dai 15 ai 34 anni, ma le cifre diffuse sembra siano inferiori a quelle reali, come ha fatto notare anche papa Francesco rivolgendosi agli studenti dell’Università Roma Tre, in cui ha legato questo dramma alla “liquidità” della nostra società, che toglie lavoro e speranza ai giovani. Ne abbiamo parlato con Mario Pollo, che insegna pedagogia generale e sociale e psicologia delle nuove dipendenze all’Università Lumsa.
«Perdonami per non essere riuscita a colmare quel vuoto». Le parole strazianti della mamma di Giovanni, al funerale del figlio, sanno di resa e di impotenza…
«Era stata lei a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, e quindi di fatto possiamo parlare di resa. Ha pensato che l’unico modo di intervenire fosse fare ricorso all’apparato repressivo dello Stato: non ce la faceva più. È stato un gesto disperato nel tentativo disperato di salvare il figlio. Il senso di impotenza racchiuso in queste parole è molto forte: oggi molti genitori sperimentano l’impotenza nei confronti dei propri figli, soprattutto in età adolescenziale. L’adolescenza attuale, infatti, accanto alla turbolenza tipica dell’età, alle ribellioni, alla tendenza a cercare il rischio, è immersa in una cultura in cui ci non ci sono limiti definiti che siano socialmente condivisi. Il desiderio sembra avere la meglio su tutto: la possibilità di rispondere ai propri desideri, ai propri bisogni, è un assoluto, viene prima di tutto e non tollera di essere subordinato a valori, norme e regole».
I genitori che cercano di arginare questa deriva culturale sono genitori soli?
«Certamente l’esito di chi cerca di spezzare questa logica perversa è la solitudine. Di fronte alla tragedia di Giovanni, c’è stato chi ha detto che se la cannabis fosse legalizzata, il suicidio si sarebbe potuto evitare. La soluzione proposta dalla cultura dominante è dunque: eliminiamo del tutto il limite. E non, invece: aiutiamo i ragazzi a scoprire che è solo nel limite che possono essere felici, cioè nella capacità di esprimere il proprio desiderio di vita all’interno della forma di vita finita. Invece di educare a scoprire il senso del limite, si propone l’opposto: aboliamo totalmente i limiti. Già i presocratici dicevano che quando il desiderio non viene incanalato in un limite, non produce vita ma morte. Oggi un genitore che voglia convincere il figlio a darsi un limite, vive una situazione di impotenza e non può contare sull’alleanza né di altri genitori, né di altre agenzie educative. I genitori devono essere sempre complici, “facilitatori” dei desideri dei loro figli».
L’uso di sostanze, dai ragazzi, è percepito come una “scorciatoia” per riuscire nella vita?
«Un ragazzo che, da un lato, si impegna nello sport, e poi fa uso di droga, non riesce a capire che le due cose sono in contraddizione. Questo perché, in generale, i giovani non sono educati a cercare il senso autonomo della propria vita, ma semplicemente a cercare di vivere nel modo più gratificante possibile. Nessuno spiega più loro che ogni méta, nella vita, richiede capacità di sacrificio, impegno, dedizione, sudore, anzi ciò che viene loro fatto credere è che tutte le méte si possono raggiungere senza fare alcun sacrificio. È un groviglio non facilmente districabile».
Poi c’è il caso di Michele, che a Udine si è suicidato perché «non posso passare la vita a sopravvivere», ha spiegato. L’ha fatto perché il mondo adulto non è riuscito ad offrirgli quello che cercava?
«Certe volte non si accetta che la vita non sia all’altezza dei nostri sogni e delle nostre speranze, che in una contingenza storica particolare si debba accontentarsi di una vita “arrabbattata”. La maggior parte dell’umanità, oggi, vive in una condizione di precarietà: nella società del benessere, invece, siamo abituati al lavoro garantito. Manca quel realismo per cui ci si rende conto che non sempre possiamo realizzare la nostra vita in situazioni ottimali, ma occorre adattarci al limite, grazie alla capacità innata nell’uomo di elaborare uno spirito di sopravvivenza. Questo non significa che non dare lavoro ai giovani sia una cosa bella, ma purtroppo la realtà è questa, e bisogna imparare a fronteggiarla: ognuno di noi ha queste risorse, ma non viene educato a tirarle fuori. La denuncia verso un mondo adulto che non offre adeguate opportunità ai giovani è sacrosanta, ma è anche vero che si è persa questa capacità di adattarsi alle situazioni. Domina una visione idealizzata intorno alla vita sociale: si pretende che la vita sociale ci tolga tutte le asperità. È una nobilissima aspirazione, ma nella precarietà attuale questo spesso non si verifica. Dobbiamo adattarci a vivere nella debolezza: solo quando la si accetta, si riesce a crescere e a diventare forti».
Fondamentale, per i ragazzi, è il tema della “scelta”: da quali falsi slogan bisogna guardarsi, allora, per scegliere cosa fare della propria vita?
«Il primo mito da sfatare è quello per cui non c’è realizzazione personale senza successo. Dire a un giovane “ti realizzi solo se hai successo” è terrificante, perché porta le persone a inseguire il mito del successo, invece che a cercare di diventare se stesse. Pochi educatori dicono oggi ai giovani “diventa te stesso”, al di là delle posizioni sociali che occuperai. Anche se si svolge un ruolo sociale considerato “marginale”, si può essere felici: se si costruisce davvero se stessi si vive la propria vita in modo pieno».