Un dialogo a 360° sul futuro dell’Europa che è, a ben pensarci, il domani anche di molte altre sfide che “la” e “ci” riguardano tutti, come le migrazioni, la crisi economica, il dovere della solidarietà, il terrorismo e la sostenibilità del pianeta.
È stato un confronto di alto livello – come era facilmente prevedibile – quello che, presso l’Istituto di Studi di Politica Internazionale nello storico Palazzo Clerici a Milano, ha visto gli interventi del cardinale Scola e di Romano Prodi, due volte Presidente del Consiglio dei Ministri e alla guida della Commissione Europea dal 1999 al 2004.
Con il titolo “Europa al bivio”, l’evento, affollatissimo, ha concluso il ciclo di cinque appuntamenti dedicati alle principali sfide dell’Unione Europea, aperto dal primo con la Ministro della Difesa, Pinotti. Introdotto da Giancarlo Aragona, ambasciatore e presidente dell’Ispi, il confronto è subito entrato nel vivo, con il tema della Brexit, secondo Prodi – una delle coscienze europee in Italia, come lo definisce Aragona – non «una catastrofe», anche se l’esito dovesse essere l’uscita della Gran Bretagna, «ma, certo, una decisone dopo la quale tutto sarà diverso».
«Il regresso dell’Europa è stato forte: infatti, fino a 10-15 anni fa, l’Europa era definita un’unione di minoranze, ma non siamo riusciti a realizzarla. In un’Europa, che ha scelto di progredire con metodo democratico, lo spirito di solidarietà si è fortemente attenuato per motivi di carattere economico, prima, e, poi, con il problema delle migrazioni per cui le tensioni che fino alla crisi greca erano a livello di governi, ora sono arrivate a livello di popolo», spiega l’uomo politico.
«Mi auguro che la Gran Bretagna rimanga nell’Unione, ma ricordiamo che sono stati per primi gli inglesi a ritenere che Bruxelles fosse il mostro – il “moloch”, come lo chiamano a Londra – che condizionava il futuro dell’Europa, per cui, oggi sono stupito che il Premier britannico sia il primo a gridare alla catastrofe. Ormai il vulnus è già fatto, perché ha creato l’idea che dall’Europa si possa entrare e uscire. Nulla sarà più come il passato, a prescindere dal risultato. A chi si domanda se dell’ampliamento dei Paesi membri dell’Ue sia stato troppo veloce, vorrei chiedere cosa accadrebbe ora, se la Polonia fosse l’Ucraina», scandisce l’ex Presidente.
«La situazione di stallo, di instabilità, di inquietudine e di incertezza attraversa tutti, ma l’uomo per sua natura non può disperare e, dunque, bisogna guardare alle cose con speranza, quella che Péguy chiamava la virtù bambina. Per questo per le crisi in atto, da tempo, preferisco utilizzare la categoria del travaglio», risponde l’Arcivescovo. «Ciò vale anche per la Brexit, con cui non siamo di fronte a nulla di escatologico. Quindi l’idea del travaglio, che ha già in vista la speranza di una nuova nascita, mi pare più appropriata. Tuttavia, la sensazione è che all’Ue manchi una forza politica sufficiente per potersi affacciare sul panorama internazionale, che ha in ogni caso ha ancora molto bisogno dell’Europa».
Il pensiero del Cardinale è anche per le Chiese europee. «Come era palesemente evidente nel Collegio cardinalizio dell’ultimo Conclave, sapevamo che non vi sarebbe stato un Papa europeo, tanto era il travaglio delle Chiese europee».
Eppure è un’Europa che resta fondamentale perché «ha sempre portato in sé il senso di una comune appartenenza, comunicando la pluriformità e leggendola dall’interno dell’unità».
E poiché nessuno Stato nazionale può affrontare da solo le emergenze, «mai come oggi l’Europa non è un’opzione, ma una vera necessità», chiarisce Scola. «Appunto per questo è necessario è trovare un pensiero sufficientemente forte e un’azione politica».
Insomma, trovare un mix tra l’ideale e il reale per iniziare a intravedere l’esito positivo del travaglio.
«Con l’idea di unità europea, siamo partiti dal carbone e dall’acciaio – comparti legati tradizionalmente all’industria bellica – e non, quindi, da grandi discorsi teorici, ma, poi, si è posta la necessità di un’impronta ideale come richiamo a un plesso di valori quali la dignità della persona, il senso della libertà e di quelle realizzate fino alla salutare scoperta del valore, anche civile, della dimensione religiosa e della solidarietà. Attraverso una ridefinizione di paradigmi, che nasce dall’interno dei processi storici, occorre rintracciare un cammino che sia recupero della soggettività».
E aggiunge, allora l’Arcivescovo, due osservazioni: «Si deve investire il reale con una prospettiva ideale che tenga conto dell’unità di anima e di corpo di cui sono fatti l’uomo e i popoli. Ciò significa comunicare le diversità con un’unità effettiva che partorisca una cittadinanza democratica, costruttiva ed efficace. Da questo punto di vista, il cristianesimo ha qualcosa da dire, perché è attraverso la Trinità che è entrata in Occidente l’idea della diversità Se il cristianesimo europeo, anche con il grande aiuto del Papa latinoamericano, supererà le sue difficoltà, potrà aiutare anche l’Europa civile nelle sue. Una seconda considerazione è legata al fatto che la natura plurale della società europea obbliga a trovare insieme un elemento unificante. Possiamo fare nostra la saggia posizione di Maritain che, nel 1947, vedeva tale elemento nel bene sociale e primario del vivere insieme. Dobbiamo vivere insieme e quindi trasformare questo bene in una scelta politica: ognuno deve narrasi e lasciarsi narrare per tendere al massimo del riconoscimento possibile. I problemi che ci attanagliano chiedono questo paradigma nuovo di pensiero e di attività politica».
Dunque, un senso comune di appartenenza. Ma cosa è stato che ha spinto alla disaffezione verso l’Europa?
«Ci dovrà essere un faticoso lavoro e un nucleo forte che vada avanti, perché se questo avviane, tra venti anni o quando sarà, se dovesse uscire adesso, tornerà anche la Gran Bretagna. Il problema vero è quello dell’Ue futura e se riusciremo, anche in numeri più limitati, a costruire unità in un’Europa che divenga più “soglia” in termini di solidarietà perché di questo abbiamo bisogno. In tale contesto mi auguro che l’Italia e la Francia facciano la loro parte», sottolinea Prodi che aggiunge. «Se pensiamo alle tracce della storia non faremo mai nulla: se guardiamo al passato non c’è spirito europeo e anche lo spirito cristiano è stato frammentato dalle guerre di religione. Pensiamo agli Stati italiani del Rinascimento, quando c’è stata la prima globalizzazione con la scoperta degli Stati Uniti non siamo riusciti a costruire insieme Caravelle, così siamo scomparsi dalla storia. O costruiamo le nuove Caravelle che sono colossi, come ad esempio Google, o spariremo di nuovo. La nostra forza economica è pari all’America o alla Cina, ma non abbiamo capito il senso del dramma della globalizzazione. Il cosiddetto populismo, infatti, non a caso, riprende valori regressivi. Ciò che sta avvenendo al mondo ci porterà davvero alla catastrofe, con l’aggravarsi delle differenze nella ridistribuzione della ricchezza e se non mettiamo attenzione alla distruzione della classe media. Laddove il numero delle persone angosciate e insicure aumenta, mancherà il collante europeo. C’è un nuovo Keynes o un Roosvelt, come nel 1929? Abbiamo bisogno di ricomposizione della giustizia e dell’equità per ricompattare l’Europa. L’unione non si fa per settori ma per un nucleo forte di Paesi e, in questo, è fondamentale il ruolo della Germania. Se il risultato della Brexit fosse l’uscita della Gran Bretagna bisognerà sforzarsi di creare un’unione più stretta tra alcuni Paesi, che, comunque, va operata a prescindere dal risultato».
Chiaro che si tratti, come evidenzia Aragona, anche di un problema di leadership.
«Ogni popolo ha i capi che si merita, anche se non è del tutto vero. La questione per il futuro dell’Europa è la riscoperta di un concetto adeguato di cittadinanza per cui il polo della persona e della società restino correlati e indivisi. Il populismo vitupera la società civile, ma per la mia esperienza – pensiamo alle Associazionismo o al volontariato che vedo sul territorio– noi abbiamo una società civile che ha una ricchezza assolutamente straordinaria. È lì che dobbiamo trovare lo spazio di una cittadinanza nuova. Ora siamo chiamati a battere una strada di multiculturalità, ma le radici della cultura cristiana, che ha creato una base comune, credo che abbiano ancora la possibilità di offrire nuovi paradigmi che non si possono generare a tavolino, ma solo attraverso la vita. La storia avanza per processi che vanno governati».
«L’Europa deve trovare nell’esperienza degli uomini delle religioni e che vogliono il bene comune, una modalità realistica di lettura e, quindi, di azione. Non si può cedere sulla collaborazione solidale tra popoli e non dimentichiamo che il cristianesimo, per sua natura, nasce sull’evento straordinario che realizza l’universale concreto nel singolare, Gesù Cristo che si fa uomo. Nostro compito è immettere questo senso solidale dell’appartenenza comune, perché, “la giustizia è tale solo quando il cittadino opera per il bene dell’altro”, come diceva Aristotele. È su questo che dobbiamo interrogarci», conclude l’Arcivescovo, con un augurio e un auspicio. «All’Italia oggi spetta il compito di presentare all’Europa un progetto globale sulla questione della migrazione che sia un tentativo di costruire qualcosa di organico, tanto più se le Istituzioni europee sono in difficoltà e un nuovo ordine mondiale non si vede».