Viviamo in un’epoca in cui la dimensione del tempo sta cambiando profondamente. Al centro di questa accelerazione impressionante ci sono le nuove tecnologie. Ma in questo scenario non va persa di vista la qualità e il senso del nostro tempo. Al contrario rischiamo di perdere noi stessi. L’appuntamento milanese “Ricordati di santificare le feste” nel contesto di “10 Piazze per 10 Comandamenti” è stato un invito forte a fermarci un attimo e alzare lo sguardo.
Non è semplice, oggi, fermarsi un attimo. La grande crisi spinge ad accelerare per trovare soluzioni e uscire da questo tunnel dove stiamo perdendo pezzi sempre più importanti di benessere e sicurezza sociale. Una lotta contro il tempo, anche se poi va chiarito meglio di che tempo si parla. Seneca avvertiva che il problema dell’uomo non è tanto quello di non avere tempo, quanto quello di perderne. Perderne il senso vero. “Ricordati di santificare le feste” è un richiamo che in fondo vale per tutta la società nel suo complesso, credenti e non credenti. È un invito a convergere su un tempo comune di festa. Un tempo non individuale dove tutti, con le proprie convinzioni e sensibilità, possano riconoscersi e riconoscere il senso dell’essere uomini e dello stare insieme. Che poi è, o dovrebbe essere, la cifra di una comunità e di una famiglia. Certamente per la comunità dei credenti cattolici la festa si identifica con un piano più alto, ma sempre libero. «Il sabato – dice Gesù nel Vangelo di Marco – è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!».
Ma la grande crisi economica, abbiamo detto, impone nuovi sacrifici e nuove priorità. In primis la conservazione dei posti di lavoro e la tenuta dei consumi. E la scelta di tenere aperte le attività commerciali nei giorni festivi dovrebbe andare in questa direzione. In realtà le cose sono più complesse e i dati contraddittori. Di certo possiamo dire che i consumi sono in caduta libera e di conseguenza nemmeno dal fronte dell’occupazione arrivano buone notizie. Le liberalizzazioni sono utili, ma quelle del governo Monti non sono certo andate in questa direzione. Perché si è trattato di misure che di fatto hanno favorito la competitività di una parte delle imprese: quelle più forti, capaci di costruire meccanismi tutt’altro che concorrenziali come gli oligopoli. Grande e piccola distribuzione non devono essere in antitesi, ma parte di una equilibrata offerta distributiva. Dove il piccolo esercizio commerciale diffuso offre prodotti e servizi mirati e un rapporto più attento con la clientela. Mentre il supermarket punta sulla convenienza dei grandi numeri. Non va dimenticato però il valore sociale del negozio di vicinato: che spesso, come il tempo che trascorre, viene dato per scontato. E invece questa rete di piccole attività commerciali diffuse in tutti i quartieri ha sempre rappresentato, come ricorda il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli, una risorsa straordinaria per la città fatta di sicurezza, servizio e accoglienza.
Oggi queste attività, spesso familiari, stanno pagando un prezzo altissimo alla crisi in termini di fallimenti e chiusure. C’è sicuramente anche un aspetto legato alla necessità di cambiare e rendere più evoluto e attrattivo il negozio di vicinato, ma è altrettanto certo che la deregulation degli orari e delle aperture non migliora la situazione. L’uomo non è solo quanto produce e consuma. Non è un caso se il Prodotto interno lordo sia considerato ormai un indicatore insufficiente per misurare il benessere dei cittadini mentre servono altri parametri, non solo materiali, per indicare la qualità della vita. Una vita frenetica e sempre più veloce, ma che deve essere capace anche di fermarsi e alzare lo sguardo. Perché, come diceva Guareschi, «fra mille anni la gente correrà a 6 mila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino».