Quando, negli anni Novanta susseguenti al crollo del Muro e all’avvio della globalizzazione economica, si sono aperti un po’ tutti i mercati mondiali ai commerci, noi ricchi occidentali avevamo iniziato a sognare: masse di operai a basso prezzo per produrre le nostre merci, future masse di consumatori ad acquistarle. Una neo-colonizzazione che ci avrebbe garantito prosperità a lungo, a giudicare dagli intenti di chi spinse verso questa soluzione.
Lasciamo stare la questione produttiva: non è andata proprio così bene. Le fabbriche oltreconfine hanno fatto chiudere quelle nostrane. Concentriamoci su quella commerciale. È successo che, nel frattempo, molti Paesi asiatici hanno cominciato a beneficiare fortemente di questa liberalizzazione dei commerci, esportando milioni di container di merci verso un Occidente sempre più stanco e passivo. Insomma, milioni di persone si sono arricchite non solo nelle già benestanti Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Giappone, ma anche in Turchia, Indonesia, India e, soprattutto, Cina. Il passaggio di Hong Kong, nel 2007, dal Regno Unito a Pechino ha pure dotato la Cina di una fondamentale piazza finanziaria, utilissima per convogliare le crescenti ricchezze orientali e farle fruttare proprio in Occidente.
Dapprima quei (tanti) soldi hanno acquistato dollari americani e titoli di Stato in euro; hanno insomma investito sui nostri debiti. Ora che i rendimenti sono quasi azzerati, i capitali cinesi e indiani stanno facendo shopping di miniere, aree agricole, fabbriche, banche in tutto il mondo, con un occhio di riguardo per l’Europa.
Si è verificato qualcosa che non avevamo previsto: un arricchimento (altrui) accelerato, e un utilizzo di quei denari molto più accorto e spregiudicato di quanto immaginassimo. Nel continente asiatico non ci sono solo masse sterminate di nuovo ceto medio ansioso di acquistare i nostri jeans e hamburger, ma pure fondi comuni e finanzieri molto liquidi che vengono nelle grandi città europee ad acquistare pezzi pregiati, con grande intelligenza.
Un esempio su tutti. Un fondo di investimento di Hong Kong ha recentemente acquistato l’Hotel Paris Marriott Champs-Elisées per 344 milioni di euro (per non parlare dei 110 milioni di euro arabi per il Saint Regis di Roma, i 180 milioni russi per il Forte Village sardo, i 163 milioni sborsati da un fondo estero per il fiorentino Four Season, solo per stare nel ramo alberghiero). Ma torniamo sotto la torre Eiffel: cifra enorme, per un hotel. I francesi hanno venduto il Colosseo ai gonzi? Tutt’altro.
Ha quasi 200 tra camere e suites, è l’unico hotel affacciato sul viale più famoso di Parigi; spazi per riunioni e conferenze. Ma i neo-acquirenti cinesi hanno le idee chiare: hanno già pure la clientela da piazzare, quei ricchi cinesi – in Europa per business o turismo – che vogliono il lusso e anche un trattamento “casalingo”. Li porteranno qui loro. Le camere si occuperanno in fretta, i guadagni saranno stellari.
E noi, che dovevamo fare i neo-colonialisti sulle spalle asiatiche? Ci sono molti posti liberi per camerieri e personale per le pulizie: basterà sapere molte lingue, in primis il cinese…