La comunicazione non è il mezzo con cui esprimiamo ciò che siamo. Più radicalmente, la comunicazione è ciò che siamo. Siamo esseri relazionali. Anzi, ancor più profondamente, siamo esseri «comunionali», con le parole del cardinale Angelo Scola. Fatti per l’incontro, per la condivisione.
La stessa conoscenza, come la definisce Romano Guardini, è un incontro: grazie al quale la realtà, puramente presente nella sua sovrabbondanza caotica, diventa, appunto, conosciuta: «Ciò che deve propriamente intendersi per «mondo» è solo quanto nasce dall’incontro tra me e la realtà che mi è presente: da quella forma di incontro che si chiama conoscenza» («Etica»).
Ma perché questo incontro possa aver luogo, servono facilitatori: gli educatori, gli insegnanti, i genitori lo sono.
E i giornalisti, certamente: figure di confine tra mondi, che collegano territori separati attraversandoli, traducendoli e raccontandoli. In questo modo, riescono a rompere l’isolamento e l’effetto «stanza degli echi» che si crea quando abbiamo a che fare solo con ciò che ci sta vicino, con ciò che ci somiglia. Per incontrare ciò che ci è distante, fisicamente o culturalmente, occorre che qualcuno faccia da tramite. Che aiuti ad allargare gli orizzonti. Perché la pura accessibilità del lontano non è ancora incontro, conoscenza.
Per questo, anche oggi che l’uomo non è più, come lo definiva McLuhan, un «raccoglitore di informazioni» ma è diventato un produttore, grazie alle nuove possibilità offerte dal digitale, il ruolo del giornalista è più importante che mai.
È vero che ciascuno di noi può aprire un blog, diventare una celebrità su Twitter, documentare ciò a cui assiste e condividerlo in rete, sperando che diventi «virale», e magari finisca su un Tg nazionale. Ma è anche vero che tutto questo rischia di aumentare la frammentazione e la cacofonia, il disorientamento e l’affidamento alle poche voci che paiono comprensibili, magari solo perché gridano più forte, o banalizzano.
Il giornalista è, o almeno dovrebbe essere, molto più che un «curatore di contenuti» o qualcuno che ha «fiuto per la notizia». È piuttosto chi, consapevole del loro enorme valore, si prende a cuore i «beni comuni informazionali»: coltivando l’amore per la verità, l’attendibilità delle fonti, la responsabilità del dire, ovvero la consapevolezza delle conseguenze di quanto si dice e del come lo si dice.
Purtroppo, anche nel mondo del giornalismo alla testimonianza e alla parresìa (dire la verità anche quando comporta dei rischi o va contro un interesse immediato) si preferisce spesso l’ipocrisia (compiacere qualcuno per avere dei vantaggi).
Ci vuole una grande libertà e anche una buona capacità di sacrificio (ovvero di «rendere sacro» anche pagando dei costi) per essere un buon giornalista. Per questo, nel mondo del giornalismo fai-da-te, delle «app» che aggregano i contenuti senza bisogno dell’intervento umano, della diffusione immediata sui social media delle «breaking news», che quando arrivano sul giornale sembrano già un po’ stantie come il pane del giorno prima, il ruolo del giornalista resta fondamentale per orientarsi, contestualizzare, collegare, capire. Per incontrare la realtà e non solo moltiplicare la presenza dei suoi frammenti.
E, a maggior ragione, resta fondamentale il ruolo del giornalista cattolico. Che non è il «piazzista» di contenuti altrove trascurati, che devono quindi trovare una «riserva» protetta che ne scongiuri l’estinzione. Il suo ruolo non può e non deve essere difensivo, ma propositivo.
Ci sono almeno due buone ragioni per sostenere il giornalismo cattolico: l’originalità dello sguardo e la libertà.
La fede, ce lo ha ricordato Papa Francesco nell’enciclica «Lumen Fidei», è una luce che illumina il mondo aiutandoci a comprenderlo nella sua verità. Tante realtà che riguardano l’umano, invisibili agli occhi dei più, «non notiziabili» come si dice tecnicamente, si manifestano solo a uno sguardo illuminato dalla fede. «Non credere a nulla è non vedere nulla», sosteneva Flannery o’ Connor. E aveva ragione. Senza questo «sguardo illuminato», tutto rischia di presentarsi equivalente e indistinto, e allora davvero finiscono per contare solo gli interessi.
Per questo, il giornalismo cattolico è anche potenzialmente un luogo di grande libertà. «Nel mondo ma non del mondo» è il motto di chi può coniugare l’impegno e la passione per tutto ciò che può rendere il mondo più umano e insieme il distacco necessario per non restare intrappolati nel gioco delle reazioni, nei vicoli ciechi delle contrapposizioni e degli schieramenti, nelle paludi degli interessi di parte.
Perché la professionalità da sola non basta, e non è riducibile a un insieme di competenze tecniche. Quando si coniuga con la spregiudicatezza e il cinismo i suoi effetti sono devastanti.
Ascoltare e accompagnare le inquietudini e le domande, facilitare l’incontro con una realtà frammentata e complessa trasformando il caos in un mondo abitabile, senza tradirne la ricchezza e la pluralità, è possibile solo se si dispone di una bussola, di un criterio di orientamento. E l’amore per l’essere umano, insieme al rispetto per il suo desiderio di pienezza che non va mortificato con soluzioni riduttive, sembra oggi più che mai irrinunciabile.